mercoledì 12 luglio 2017

Una bella storia

 
Lo puoi quasi vedere.
Un giornalista investigativo, nel suo studio con il condizionatore rotto, un vecchio portatile sulla scrivania ingombra di fogli spiegazzati, macchiati di caffé e una bottiglia di bourbon piena per metà a far da fermacarte.
Si passa una mano sulla fronte imperlata di sudore. Non dorme da giorni, la camicia chiazzata e sgualcita potrebbe raccontare una storia tutta sua.
Sono mesi che segue il caso Trump, cercando di sbrigliare la matassa aggrovigliata di tracce e indizi che collegano la campagna presidenziale al governo russo, ma si trova in mano solo fili pendenti, che non portano da nessuna parte.
Gli sembra di impazzire.
La moglie non lo chiama neanche più, quasi non ricorda il volto dei figli. Da quanto non vede casa?
Afferra la bottiglia e, nonostante il termometro segni una temperatura adatta a grigliare le bistecche, ne vuota due dita in un solo sorso. Riprende a esaminare i documenti, cacciandosi nuovamente in mezzo alla matassa, alla ricerca del filo giusto.
C'è.
Si trova lì, da qualche parte. Ne è sicuro.
E, all'improvviso, dal vecchio portatile squilla una notifica, un Tweet che si troverà a fissare per i prossimi quarantasette minuti, incapace di elaborare l'informazione che i suoi occhi annebbiati dall'alcol stanno faticosamente trasmettendo al cervello.
Ha distrutto la sua vita, mettendo tutto sé stesso in quest'indagine.
Ha passato mesi a seguire piste morte.
E poi, lui.
Gli è bastato premere il tasto "tweet".
Donald Trump Jr ha semplicemente, candidamente twittato la prova della collusione fra il governo russo e la famiglia Trump, al fine di influenzare la campagna presidenziale americana.

Odio quando la vita vera rovina una bella storia.
 
Fa ridere, perché è vero.
 

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