venerdì 23 dicembre 2016

Rogue One: le Guerre Stellari Si Tingono di Grigio

Prima di cominciare:

SPOILER ALERT

Sotto le regole stabilite dalla Convenzione di Ginevra, altrimenti dette "da qui in avanti, sono cazzi vostri e non venitevi a lamentare da me", siete stati avvisati.

 Ci mettiamo anche una bella immagine della locandina, così siamo certi che non leggerete nulla per caso: se vi beccate spoiler è per colpa vostra.

Prima di parlarne, ho aspettato di vederlo due volte, perché, per svariati motivi, Rogue One è un film notevole.
In primo luogo, è un eccellente linea di partenza per la serie delle "Star Wars Stories" programmate dalla nuova gestione. Anzi, forse pure troppo eccellente: sarebbe stato difficile spostare più in alto di così la sbarra delle aspettative per i prossimi film.
Sì, perché Rogue One ha una notevole profondità, per un film di Star Wars. Forse, è il più profondo dell'intera saga, con la sua lucida riflessione sulla linea di demarcazione tra giusto e sbagliato e su come, troppo spesso, il confine sia incerto e offuscato. Per la prima volta, i Ribelli non sono unicamente un manipolo di coraggiosi e giusti, ma un gruppo poco coeso, fatto di gente anche vigliacca, pronta alla resa, oppure di soldati pronti a fare cose terribili in nome di una giusta causa.
Cassian Andor che spara alla schiena di un contatto impossibilitato a fuggire, per non farlo finire in mano imperiale, è un momento fondamentale per mettere in chiaro questa sfumatura che, nella narrativa starwarsiana, è completamente nuova. Non si ha l'impressione di un voltafaccia a 180° sulla bussola morale, bensì di venire più a contatto con il lato umano delle Guerre Stellari.
Finora, infatti, abbiamo avuto a che fare con i Prescelti, quelli che hanno il dono di usare la Forza, o possiedono la nave più veloce della galassia. Rogue One, per la prima volta, ci fa vedere la Galassia dal punto di vista di quelli come noi. Quelli senza doni speciali: la classe operaia di Star Wars. E non è affatto una visione rose e fiori. I protagonisti di Rogue One non hanno una scala di valori netti, perché non possono permetterselo. Non sono mistici cavalieri dotati di poteri sovrannaturali, non sono i blaster più veloci della Galassia, non hanno abilità speciali. Sono semplicemente persone che si trovano coinvolte in fatti più grandi di loro, che devono arrangiarsi e lottare con tutte le scarse risorse a loro disposizione per contrastare il male più grande immaginabile. Non è un caso che questo coincida con l'avere, per la prima volta, una rappresentazione cruda, realistica e non edulcorata della guerra, in parecchie delle sue brutture.
Facile essere eroi, quando puoi muovere gli oggetti con il pensiero, manipolare la volontà altrui e parare i raggi laser con la tua lightsaber.
Molto meno facile, quando sei uno qualunque, messo di fronte a chi, quei poteri, li ha e li sa usare molto bene.

Rogue One: il film che finalmente risponde alla domanda "Perché non c'è uno Squadrone Blu durante l'assalto alla Morte Nera?"
 
Non finisce bene, Rogue One. Eppure, finisce benissimo, in un trionfo che non sarebbe possibile assaporare più di così, perché non ci si arriva grazie al potere mistico di far deviare i missili per farli entrare nella stretta fessura di scarico. Il trionfo è totale, perché ci si arriva per la strada più difficile, quella da cui non esci vivo. Ci si arriva attraverso un corridoio scuro, illuminato dalla luce rossa della spada laser di Darth Vader, con la porta verso la salvezza che non si apre e che non si aprirà all'ultimo secondo. Ci si arriva soffrendo.

Meravigliosa la ricostruzione ambientale. Si arriva a ridosso di Una Nuova Speranza e lo si fa con eleganza. Una cura maniacale nel ricostruire ambientazioni note, che passa per l'esattezza nel riproporre i vecchi set, ma anche per l'audio ambientale, fino ad arrivare ad avere comparse somiglianti agli attorni sullo sfondo nel vecchio film. L'utilizzo della moderna tecnologia ha permesso di ringiovanire Carrie Fisher e persino di resuscitare alcuni attori, tra cui Peter Cushing.

Interessante che, nel cast degli attori principali, la protagonista sia donna, gli altri tutti di etnie diverse da quella bianca, contribuendo a sfatare il falso mito per cui se i protagonisti non sono tutti bianchi di pura razza, allora il pubblico non potrà identificarsi con essi.

Due scene su tutte: per la prima volta, vediamo gli effetti della Morte Nera, dal punto di vista di chi li subisce. E la sensazione è terrificante e maestosa.
E poi, la scena del corridoio e Darth Vader che avanza inesorabile contro i pochi soldati ribelli, terrorizzati, ma per nulla disposti a cedere. Angosciante e da lasciare senza fiato.

Presentare Darth Vader: lo stai facendo bene.
 
Fatevi un favore: andate a vederlo. Una, due, tre volte. Mille.

giovedì 10 novembre 2016

(Non) Basta Volerlo

Vi racconto una storia.
1879. Rorke's Drift, Sud Africa. 150 soldati britannici che presidiano un piccolo avamposto isolato, si trovano ad affrontare un'orda di guerrieri zulu forte di almeno 3000 guerrieri.
Non hanno cannoni, non hanno solide mura di difesa. Il loro è un semplice punto di rifornimento. Gli Zulu, invece, sono parte di un contingente di 20000 uomini che ha appena massacrato 1300 soldati inglesi armati di tutto punto, dopo averli sorpresi in campo aperto. 
Furono dieci ore di combattimento furioso. Accerchiati, i soldati di Sua Maestà non avevano via di fuga e nessun'altra scelta se non combattere fino all'ultimo, contro una forza d'assalto che li soverchiava di 20 a 1. Non avevano speranze, ma combatterono ugualmente, mettendoci tutto ciò che avevano e, al di là di ogni speranza, riuscirono a costringere l'orda a ritirarsi.
Ce l'avevano fatta.
Contro ogni logica, con la sola volontà di non arrendersi, opponendo il valore puro e semplice alla forza bruta e invincibile che avevano davanti.
Si tratta di un fatto storico verificabile. Un film del 1964 racconta molto bene gli avvenimenti della battaglia, pur con qualche libertà narrativa.

Pochi, esausti, soverchiati.
Riescono comunque a vincere.

Una bella storia, in cui la semplice forza di volontà sconfigge una sfida impossibile.
Peccato che non sia così. Per lo meno, non soltanto. Certamente, il rifiuto di arrendersi e la determinazione a combattere fino all'ultimo furono determinanti.
Ma lo furono anche i fucili di ultima generazione, più precisi e capaci di sparare numerosi colpi, così come la competenza degli ufficiali nel disporre le difese e l'addestramento dei soldati, che mantennero la disciplina e seppero far uso ottimale dell'equipaggiamento a loro disposizione.
Gli Zulu, poi, stavano lanciando un attacco non autorizzato e non potevano permettersi troppe perdite. Si ritirarono con 350 morti e 500 feriti. Se avessero continuato, avrebbero indubbiamente vinto, per semplice virtù del loro numero, ma le perdite avrebbero pesato sul fragile sistema tribale: sarebbe stata una vittoria di Pirro. Pertanto, dovettero lasciar perdere.
La determinazione degli Inglesi fu fondamentale. Lo furono anche gli strumenti a loro disposizione, così come le circostanze particolari di quell'attacco.
Fu una pagina avvincente della storia britannica e se volete informarvi in merito, potete iniziare qui. Ma perché ve l'ho raccontata?

Perché uno dei mantra più diffusi nella nostra narrativa è quello che ci insegna che con la sola forza di volontà di può ottenere tutto, anche se sei privo di talento, anche se non hai le i mezzi cognitivi necessari, anche se non hai gli strumenti giusti. E questo cliché è entrato a far parte del nostro modo di pensare di tutti i giorni.
Basta volerlo.
Basta lavorare duramente.
Puff! Fatto.

Basta volerlo!

No.

Non funziona così: quella del "basta volerlo abbastanza intensamente" è una balla.

Per ottenere quello che desideri, la determinazione è certamente fondamentale e imprescindibile: tutti i percorsi sono fatti di momenti di crisi, di sconforto, momenti in cui vuoi sederti e mandare tutto al diavolo, momenti in cui tutto è nero e non desideri altro che di lasciar perdere.

Ma non è l'unico fattore.
Serve il talento, la predisposizione naturale: posso avere la ferma volontà di volare, ma non mi spunteranno mai le ali.
Ci vogliono gli strumenti: dovrò procurarmi un deltaplano, un aliante, un elicottero...
Servono le nozioni necessarie a fare ciò che desidero: devo per forza sapere come funziona il mezzo scelto, oppure saranno cazzi acidi al primo distacco da terra.
Serve l'allenamento: duro e costante. Non si impara a volare in cinque minuti.
E ci vogliono le circostanze giuste: diciamo che una violenta grandinata non è la condizione ideale per lanciarmi con il mio bel deltaplano nuovo di zecca. Queste, purtroppo, non dipendono da noi.


Il "basta volerlo" è dannoso.
Si ripercuote nella vita di tutti i giorni in vari modi. Ci sono politici che si fanno alfieri del "basta volerlo", perché è più rassicurante, un modo per risolvere i problemi che non richieda impegno, comprensione e lotte. Malati di cancro che si aggrappano a questo mantra, perché la chemio fa paura e la favola della forza di volontà che sconfigge la malattia è senza dubbio più attraente che non il calvario delle cure mediche.

Lavora, soffri, sanguina.
Potresti comunque fallire.

Ci raccontiamo questa storiella, perché quella della pura e semplice determinazione incrollabile che da sola abbatte tutti gli ostacoli è la favola della strada sicura. Abbiamo paura dello sforzo, del dolore, della sconfitta e pertanto ci circondiamo di illusioni.
Vuoi diventare un cantante famoso? Un giornalista? Un attore? Un autore? Il re dei pirati?
Ti serve la determinazione. Te ne servirà tanta, tantissima: le difficoltà sono tante e i soldi, all'inizio (e dopo, e dopo ancora...), pochi.
Ma ti servirà anche il talento, anche poco, ma un minimo di predisposizione deve esserci.
Ti servono gli strumenti e le conoscenze: ciascuna di queste professioni ha bisogno di preparazione e conoscenze tecniche.
Serve l'allenamento: all'inizio non sarai bravo quanto dopo aver fatto pratica per un anno. E due anni dopo, se avrai praticato con costanza, sarai probabilmente ancora più bravo...
L'impegno, a promuoversi, a creare connessioni utili, a portare avanti il proprio obiettivo.
E servono le circostanze, perché se non conosci le persone giuste, se non becchi il momento giusto, il tanto agognato sogno non si avvererà. E queste possono essere in parte create con l'autopromozione, ma a volte si tratta di fortuna o sfortuna, pura e semplice.
Mandi il soggetto più bello del mondo, ma finisce accidentalmente nel tritarifiuti. Il server di gmail crasha e perde tutti i dati.
Mandi un soggetto sbagliato, che avresti dovuto gettare, ma oh, capita fra le mani di un visionario che ne scorge il potenziale che ti era sfuggito.

J.K. Rowling ha dovuto sostenere un sacco di rifiuti, prima di approdare alla Bloomsberg con Harry Potter. Non si è arresa, ma dietro ha avuto tanto talento e tanta voglia di autopromuoversi, di migliorarsi, di imparare.
Bebe Vio ha vinto un oro olimpico, mostrando una forza di volontà incredibile, ma altrettanto incredibili sono la sua capacità di riuscire a sostenere duri allenamenti, di volersi sempre migliorare, di fare nuove esperienze.
Kurt Yaeger è un ciclista acrobatico. Ha avuto un incidente in moto che lo ha lasciato con una gamba sola, il bacino sfondato, con qualcosa come una ventina di chiodi a tenerlo assieme, la spina dorsale danneggiata. Gli avevano detto che non avrebbe mai più camminato. Ora, non solo è tornato in moto, non solo fa costanti viaggi sulla sua due ruote, in giro per il Canada, gli USA, l'Africa... è anche tornato a fare bici acrobatica. Ha fatto una maratona per beneficienza. Forza di volontà incrollabile? Indubbiamente. Ma anche allenamento, costanza nell'impegnarsi per imparare nuovamente a fare tutto nelle condizioni fisiche cui è costretto. La volontà non cambia il fatto che lui abbia una gamba sola. L'allenamento a muoversi con la protesi, però, riesce a sopperire in gran parte.

Non dobbiamo aver paura del fallimento: la possibilità di non riuscire è insita nell'intraprendere un qualunque percorso. Non facciamoci quindi ingannare da chi ci dice "basta volerlo". No, non basta: il bagaglio verso il successo è fatto di tante altre cose, egualmente importanti. Sì, inclusa la consapevolezza che il successo stesso non è garantito.
Dire che basta la sola forza di volontà è un insulto per quelli che, dopo aver lavorato duramente, dopo aver lottato con le unghie e con i denti, dopo aver dato il meglio, hanno comunque fallito nel loro intento.

Il picco più alto è lì, a portata.
Seguire un sogno con l'unico bagaglio del "basta volerlo" è come mettersi a scalare l'Everest con un paio di scarpe da ginnastica, jeans e maglione. Te ne manca tanta, di roba. Ma tanta.

E lui non ha tentato la scalata dell'Everest armato solo di buona volontà.

mercoledì 2 novembre 2016

Lucca 2016 - Piccole Città in Movimento

Usciti i dati di affluenza per l'edizione 2016 di Lucca Comics & Games, possiamo parlare di ottimi risultati. Festeggiando il cinquantesimo compleanno, la manifestazione arriva a staccare oltre 270000 biglietti, sfondando la soglia del quarto di milione di affluenze paganti, solo sfiorata nell'anno record del 2014.
Domenica si registra il tutto venduto, con 80000 biglietti.






Il poster, realizzato da Zerocalcare.


Qui, la fonte cui ho fatto riferimento per i dati. Le considerazioni più pertinenti alla manifestazione le trovate lì, dunque non mi dilungherò a ripeterle.

Quello che vorrei sottolineare è che Lucca, ormai da anni, è capace di muovere masse di persone pari agli abitanti di tante piccole città. Lucca stessa arriva a mala pena a sfiorare i 90000 abitanti.
I miglioramenti nella gestione della calca (dis)umana che si crea in città durante i giorni del festival ci sono e sono stati sensibilmente efficaci, con vigili urbani e addetti dell'associazione a gestire il traffico nei punti nevralgici, soprattutto quello in entrata e uscita dalle famigerate porte della città.
Quest'anno, il problema è stato un altro, non direttamente legato alla manifestazione e di certo non dipendente dai suoi organizzatori.

Sto parlando di come, a ridosso di una delle più grandi e importanti manifestazioni di tutta Italia (non dico "la più grande", in mancanza di dati certi), la società autostradale abbia deciso di strozzare l'arteria principale che dal nord Italia porta fino a Lucca, in due punti diversi, creando code improponibili, fino ad arrivare al famigerato traffico fermo in autostrada (elencato fra i crimini contro l'umanità, presso il tribunale dell'AIA).






La foto si riferisce a una circostanza non collegata.
Serve solo da esempio di come possano cadere fitti i santi, in autostrada.


Magari, chiedere che la società autostradale si interessi a una manifestazione di fumetti e videogiochi (anche se comincia a diventare una definizione limitativa, vista la crescente multimedialità del festival) può suonare come una pretesa un po' troppo campata per aria, ma parliamo di un evento che, a prescindere dall'argomento, ha mosso un totale di oltre un quarto di milione di persone nello spazio di cinque giorni. E questo senza contare tutti gli ospiti che, tra autori ed espositori, aggiungono sicuramente una bella fetta di persone e carovane in movimento, e i non paganti che sono giunti comunque per vedere lo spettacolo dei cosplayer e sperare di beccare l'autore preferito fuori da uno stand, magari in uno dei pochi, sacrosanti e preziosi momenti in cui se ne sta seduto al bar a prendere un meritato caffé.
Parliamo di un traffico totale equivalente a più di tre volte la normale popolazione della città di Lucca. Direi che tre piccole città in movimento sulle autostrade e le ferrovie d'Italia siano qualcosa di cui la società autostradale dovrebbe tenere conto, che ne dite?

mercoledì 19 ottobre 2016

Social Media con Happy - Il Caps-Lock

Oggi inauguriamo una nuova rubrica, che ci porterà a lezione di netiquette da un esperto. 

Ecco, questa è una domanda che non dovete assolutamente fare.
Mai.
Perché poi lui s'incazza.

Comunque, bando alle ciance, via con la prima lezione: il tasto Caps-Lock.

Fine della lezione.

giovedì 29 settembre 2016

Ma i cazzotti... sono veri o finti?

Olà! Torno ad aggiornare il blog, dopo una lunga pausa estiva. Tuffiamoci subito nel mezzo di alcune scazzottate, tanto per cambiare.



Di questa scena, tratta dalla prima stagione di Daredevil, amo tutto. Dalle coreografie estremamente pesanti, alla luce, al sound, fino ad arrivare alla narrativa.
L'ambiente è semplice e lineare: siamo in un corridoio. Le stanze adiacenti è come se non esistessero, perché non le vediamo mai davvero: tutto quello che accade al loro interno è fuori camera, accade lontano dai nostri occhi. Siamo di fronte a una scena senza fronzoli. Letteralmente.
In una scena d'azione, solitamente uno spazio ampio è sinonimo di movimento e dinamismo. Le coreografie sono più complesse e spettacolari, al punto da diventare, in casi estremi, decorazioni barocche autocompiaciute (e non è detto che sia un male, a seconda del contesto).



Prendiamo, come esempio di quanto detto, una delle scene migliori di Matrix: la sparatoria nell'androne del grattacielo.  Abbiamo un ambiente ampio, sia pur essenziale, in cui è possibile effettuare tutte le coreografie acrobatiche e dinamiche per cui il film è diventato giustamente famoso. Ogni dettaglio dell'ambiente e di come esso reagisce alle azioni dei personaggi è funzionale al tipo di narrativa. Prendiamo, per esempio, le colonne dietro cui si riparano Neo e Trinity: i proiettili mangiano il cemento armato con velocità impressionante. Realistico? No, per niente. Ma le colonne non sono lì per reagire in modo realistico ai proiettili: la loro rapida erosione è soltanto un timer. Puoi star fermo al riparo dai proiettili (e quindi tenere ferma la scena) solo per pochi secondi, prima che il fuoco nemico distrugga il tuo riparo. Le colonne servono a tenere la scena in movimento perpetuo: non ci sarà tregua, fintanto che ci saranno nemici da uccidere.
Il risultato è una delle scene d'azione più belle degli ultimi trent'anni di cinema action.

Ma torniamo a Daredevil. Immagine: Fonte


Che cosa ci dice l'ambiente circa la narrativa? Abbiamo una linea retta, semplice, da cui rimangono fuori gli spazi ampi. Non ci sono ripari dietro cui nascondersi, non ci sono direzioni alternative, non ci sono vie d'uscita. C'è un inizio, una fine e tanti nemici nel mezzo. La coreografia è statica, pesante come un'incudine. Vuol dire che è brutta? Nient'affatto: siamo di fronte a una delle più belle scene d'azione per la TV da parecchio tempo a questa parte.
Tutta la scena è costruita per dirci una cosa: non importa quanto siano grandi le difficoltà, o quanti nemici si frappongano fra il nostro eroe e il suo scopo. Matt Murdock è il tipo che non si ferma, è una forza inarrestabile, laddove Kingpin, invulnerabile sia fisicamente che dal punto di vista sociale, è l'oggetto inamovibile. Messi uno sul percorso dell'altro, che cosa succederà?

Molti elogiarono le scene d'azione di Daredevil per il loro realismo. Ma qui non siamo di fronte a scene realistiche. Ora dirò una cosa che sembrerà un'eresia, ma seguitemi per un attimo. La rissa nel corridoio non è differente dalle scazzottate "campy" del Batman di Adam West, o delle risse da sorrisi e cazzotti di Bud Spencer e Terence Hill. Mancano solo i suoni buffi e le scritte, si obbedisce a tempi narrativi drammatici più che comici, ma, alla fine, siamo sempre di fronte a scene che non rispettano le leggi del realismo.

La scena della rissa nel corridoio, in Daredevil, è tutto fuorché realistica. Manca il sangue. Abbiamo un mafioso russo che si prende il case di un pc in testa e si rialza letteralmente meno di dieci secondi dopo per continuare a prendere cazzotti in faccia. Matt Murdock è già ferito, è precipitato dal tetto di un palazzo poche ore prima, ma continua a picchiare, persino dopo aver preso cazzotti nelle costole. Se questo è realismo, è lo stesso realismo che troviamo in una scena d'azione di Jackie Chan, senza le coreografie spettacolari. Potremmo fare una digressione su come Jackie Chan usi l'ambiente per trasmettere una forza esplosiva che non ubbidisce alle leggi, proprio sfruttando spazi ristretti per acrobazie spettacolari per cui servirebbero stanze più ampie, ma per ora lasceremo perdere e rinvieremo a un'altra occasione, perché mi voglio avviare verso la conclusione di questo post.

Quindi, no: Daredevil non ha scene d'azione realistiche. Eppure, rimangono piccoli gioielli d'azione, in cui il livello di realismo è funzionale alla narrativa. Siamo, sì, in un ambiente brutale e vivido, che non fa sconti a nessuno, ma il mondo ubbidisce pur sempre alle leggi del genere action. La grande abilità di chi ha lavorato a questa scena (dagli autori fino al regista, passando per i cameramen e i tecnici nella saletta di montaggio) è nel capire il contesto narrativo in cui si muovono i personaggi e sfruttarlo a proprio vantaggio per trasmettere la storia.



Vogliamo il realismo? Lo troviamo in Sons of Anarchy o, per lo meno, lo troviamo in questa particolare scena. Non significa che le scene d'azione siano necessariamente migliori di quelle di Matrix o di Daredevil. Né peggiori, se è per questo. Semplicemente, ci raccontano qualcosa di diverso.
E, anche qui, l'ambiente è funzionale alla narrativa: spoglio, ma ampio. Brutale e senza vie d'uscita. Otto è in carcere, con guardie letteralmente a pochi metri di distanza, ma è come se fosse disperso nel deserto: non ci sarà alcuna cavalleria a salvarlo all'ultimo.

E arriviamo alla conclusione. Perché questo pippone enorme? Perché mi sono trovato a pensare, in questi giorni, al modo in cui l'ambiente non sia solo uno sfondo, spesso interessante, in cui infilare le proprie scene, ma debba anche essere funzionale alla trasmissione della nostra storia, a seconda del contesto narrativo. Abbiamo visto come Matrix usava l'ambiente come uno spazio narrativo dinamico, come Daredevil si serva invece di spazi minimi per trasmetterci l'ostinazione del protagonista e di come Sons of Anarchy usi una stanza ampia e relativamente luminosa per trasmetterci quello che è il tema portante della serie: cioè che, in ultima analisi, siamo soli e dobbiamo guardare la vita in faccia, anche quando ci sta infilando un bastone scheggiato nella cavità orbitale.

Il vero tema principale di Sons of Anarchy: vitadimmerda.


E con questo, che spero sia uno spunto interessante su cui riflettere, sia per chi fa il mio mestiere, sia per chi si trova dall'altro lato delle pagine, vi saluto. Bentornati nei Saloni Senza Eroi, dopo la lunga vacanza! Ci rivediamo presto!

venerdì 13 maggio 2016

Bicilindri e Idee Bislacche

Il teschio Willie-G è impaziente di cominciare il viaggio...

Con la passione per le moto, una GoPro e... be'... una moto vera e propria, si possono fare tante cose interessanti.
Ed è così che, montando il video che potete trovare in fondo al post (parte di un mio giro nell'immediato entroterra genovese, lo scorso Gennaio), mi è venuta un'idea che coinvolge due mie grandi passioni: la mia Harley e la scrittura, unendole in un binomio a due cilindri che non vedo l'ora di collaudare.

Datemi solo un po' di tempo per mettere in ordine i vari spunti, mettere a posto i pezzi e trovare un formato sensato.

Nel frattempo, vi lascio al video con accompagnamento musicale. Ci vediamo sulla strada!


domenica 17 aprile 2016

Terminator 2 e Missile Command




Terminator 2 è uno dei miei film preferiti, in assoluto.
Lo considero un capolavoro di epica moderna per i suoi contenuti e per il modo in cui li espone.
La scena con cui ho deciso di aprire questo post la considero la migliore di tutto il film: in questo momento, siamo ancora incerti su chi dei due sia il Terminator assassino (poniamoci nei panni di uno che veda il film per la prima volta, senza essere passato per spoiler o spot pubblicitari). Il destino del mondo è in bilico su quale dei due raggiungerà John Connor per primo, ma noi non sappiamo su chi puntare. In questo, è fondamentale il modo in cui sono costruite le rispettive scene introduttive per i due Terminator: mentre quella di Schwarzenegger, qui buono, ricalca da vicino la situazione iniziale del primo film, in cui lui era il robot assassino, la situazione in cui incontriamo il T-1000 è simile a quella in cui si trova Kyle Reese nel primo film, quando giunge nel presente per salvare Sarah Connor. E con entrambi, c'è spazio per il dubbio, fino al momento decisivo, l'ago della bilancia su cui poggia il destino della razza umana (cosa che anche il primo film faceva molto, molto bene).



Ma non è questo il motivo per cui vi parlo di questa scena.
Avete fatto caso al primo video game con cui John è alle prese? Si chiama Missile Command e ti mette nei panni del comandante di alcune stazioni di contraerea con il compito di salvare sei città da un bombardamento nucleare.
Per chi conosca qualcosa sulla mitologia di Terminator, l'analogia è piuttosto chiara. Per chi fosse digiuno: la storia Terminator ruota attorno a una guerra tra la razza umana e macchine intelligenti, in cui un'intelligenza artificiale ha portato la razza umana sull'orlo dell'estinzione scatenando una guerra nucleare a livello mondiale. John Connor sarà l'uomo destinato a guidare la battaglia contro le macchine, ultima speranza per il genere umano, cosa per cui Skynet (l'intelligenza artificiale responsabile del massacro) cerca di ucciderlo prima che possa assumere il suo ruolo di generale della resistenza.

Come avete visto nella scena, il montaggio ci fa credere che John Connor batta, con una certa facilità, il gioco.
Ma c'è il trucco.
Missile Command non si può battere. E' un gioco infinito, con difficoltà sempre crescente, fino a che non perdi. Non si tratta di riuscire a vincere, ma di quanto a lungo potrai ritardare la tragedia: la schermata con l'esplosione gigante e la scritta "The End" non è la vittoria, ma l'inevitabile sconfitta finale.
Sapendo questo, il film ci dice qualcosa di molto oscuro: per quanto John possa emergere vincitore dall'imminente conflitto con il T-1000, venuto dal futuro per ucciderlo, la sconfitta finale è ineluttabile. Potrà essere evitata, per qualche tempo, ma alla fine, ci sarà quella schermata finale che annuncia la distruzione di tutte e sei le città.


giovedì 3 marzo 2016

One-Two Combo - Episode 3 - The Last Stand (2013)

La luce malata di un lampione si riversa su una figura solitaria che passeggia per queste strade. Anche attraverso il vapore che sale dai tombini, così denso da appiccicartisi quasi addosso, si vede chiaramente che questo tizio, una volta, è stato qualcuno. Un tempo ormai passato. Ora, i muscoli sono afflosciati in fasci senza forza, il passo è pesante, stanco.
Ma noi non avremo pietà e ci massaggiamo le nocche in anticipazione. Non avremo pietà.

La nostra vittima.

Fair warning: spoiler sul finale. Subito. Come prima cosa.

#1 - in da feis) nessuno dei cattivi muore in maniera interessante. Se nel 2013 non hai ancora capito come devono funzionare le sparatorie nei film d'azione, la considero ignoranza colpevole.
Ci vuole di più che far vedere qualche arma di grosso calibro e gente che viene colpita dai proiettili.
Ogni morto deve essere interessante. Due, tre per inquadratura, stuntmen che volano via quando esplodono bombe e veicoli, uccisioni con armi improvvisate.
Le scene action funzionano e divertono quando sono viscerali, non asettiche.
Se tutto quello che hai da mostrarmi è il bang-bang e gente che cade, non hai niente da mostrarmi.


#2 - calci nelle costole mentre sei a terra) l'assenza delle battute pungenti, i cosiddetti "one-line zinger".
Se scrivi i dialoghi per un film con Arnold Schwarzenegger e non gli fai dire nemmeno una one-liner, stai sbagliando il modo in cui fai il tuo mestiere.

Il premio spalla più anonima di sempre va a Mr. Baffetto.


bonus - un ultimo calcio, per farti stare giù) il cattivo finale deve morire (sì, deve morire) in maniera ancora più interessante, sopra le righe e divertente di qualunque altra cosa abbiamo visto fino a quel momento. Ci vuole una one-line zinger (vedi sotto) a coronare il momento.
Due o tre cazzotti e un paio di manette sono un finale mollo in maniera allucinante. Come minimo, il signore della droga che ha causato tutto il casino deve volare giù dal Grand Canyon ed esplodere a mezz'aria.

Si fa così...


... E non così:


Bene, è venuto per noi il momento di allontanarci nella notte, ricordando qual è il meglio della vita.




lunedì 25 gennaio 2016

One-Two Combo - Episode 2 - Ladyhawke

Si avvicina nella penombra. Procede con sicurezza, anche in questo postaccio.
Salutiamolo a modo nostro.

Si chiama Ladyhawke, 1985, regia di Richard Donner.



#1 - right hook) le musiche.



Gli anni '80 furono un buon periodo per il fantasy al cinema, abituandoci a musiche fiabesche ed eteree, o a gloriose marce dal passo pesante come una montagna in movimento, fra tamburi e fanfare.
Per questo, Ladyhawke ci spiazza (positivamente) con il suo misto di orchestra e progressive rock, in una delle scelte musicali più azzeccate di sempre.
Prima che saltino fuori voci in fervente furore circa i primati del rock nel fantasy al cinema, Bowie canterà Magic Dance in Labyrinth solo l'anno dopo. Idem per i Queen, con la sublime colonna sonora di Highlander.

#2 - cross dritto in faccia) l'uso delle luci. Una cornice perfetta alle scene salienti, permettendoci di toccare con mano le emozioni dei personaggi.



Questo è cinema, nella sua forma più alta.

E anche questa volta, abbiamo messo a segno i nostri due colpi. Ci allontaniamo nella nebbia serale senza dire una parola.

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