lunedì 21 dicembre 2015

NO SPOILER - Star Wars Episode VII - The Force Awakens


Sala del cinema.
Si spengono le luci, squilla la fanfara e sono di nuovo nella Galassia.
"Chewie, we're home."
Per chi è cresciuto con Guerre Stellari, è inevitabile tirare un sospiro di sollievo ritrovando i familiari corridoi del Falcon. Siamo a casa, assieme ai nostri eroi.



Chewie, we're home.

Non ho ancora letto recensioni. Non voglio farmi influenzare dal parere di altri prima di aver scritto il mio, cosa per la quale mi sono preso un paio di giorni di riflessione.
Non sarà facile parlare di questo film.
Mi è piaciuto? Sì, su questo nessun dubbio, e non solo come fan. Però ha i suoi difetti, alcuni non da poco.
Cercherò quindi di procedere con ordine e dissezionare per bene almeno il grosso di quanto ho in mente.

Andrò per punti.

#1 - il feeling è quello giusto.

Ci sentiamo davvero tornati nella Galassia che ci ha appassionati quando eravamo piccoli. E non era scontato che fosse così. Abrams si è ritrovato fra le mani un bel pugno di castagne bollenti, che non era affatto facile da gestire.
Ma la domanda è: è riuscito a servirci un piatto gustoso, senza scottarsi?

Secondo me, sì.
Mi sono sentito più "a casa" con il film di Abrams, che con i tre film della trilogia prequel.
Compaiono volti e luogi noti anche nei tre capitoli più recenti, ma Lucas, con la sua regia fredda e i dialoghi insipidi, non è mai riuscito a farci provare gli stessi sentimenti di quei tre secondi in cui Han Solo entra nella cabina di pilotaggio del Falcon.

Quest'immagine mi riporta indietro di 30 anni.

#2 - la trama è poco organica.

Qui, il giocattolone scricchiola, con una storia che viene tirata in troppe direzioni differenti.
Cercherò di spiegarmi.
In una buona storia, deve esistere uno scopo chiaro, che ci trascina dall'inizio alla fine. Chiamiamolo il "motore" della storia. Per esempio: la Morte Nera deve essere distrutta. Indiana Jones deve impedire che l'Arca finisca nelle mani dei nazisti. Jake ed Elwood devono completare la loro missione per conto di Dio. John Matrix deve salvare sua figlia. James Bond deve sventare il piano del Dottor No. John McClane deve salvare la moglie dai rapinatori del grattacielo Nakatomi. Mr Incredibile deve scegliere fra la propria vanità e la propria famiglia. Marlin deve ritrovare suo figlio Nemo.
Potremmo andare avanti per ore, ma direi che il concetto sia chiaro: ogni buona storia ha un singolo "motore", che innesca la domanda "ce la farà il nostro eroe?", la quale poi ci spinge ad appassionarci alle vicende narrate. Questo motore ha però bisogno di essere chiaro sin da subito e, soprattutto, deve essere uno e unico, così da permetterci di focalizzare su di esso tutta la nostra attenzione e le nostre aspettative.
E questo, ne Il Risveglio della Forza, manca.
La vicenda parte dichiarando che è necessario trovare Luke Skywalker, scomparso da tempo.
Ma non ci viene mai chiaramente spiegato il perché. Non abbiamo una motivazione forte.
Quindi, il motore primario parte "a mezza velocità": mentre (tanto per restare in famiglia) era chiaro che la Morte Nera dovesse essere distrutta perché altrimenti l'Impero avrebbe avuto il potere assoluto di distruggere qualunque pianeta, qui non ci viene mai data nessuna ragione concreta per cui il ritrovamento di Luke sia vitale alla causa dei nostri eroi.
Per di più, la nostra attenzione viene sviata da altri quesiti: c'è un Nuovo Ordine malvagio che tenta di prendere il potere. Gli eroi devono abbatterlo? C'è un nuovo cattivo in gioco. I nostri eroi devono ucciderlo? Salvarlo dal Lato Oscuro? C'è una nuova Morte Nera. I nostri eroi devono distruggerla?

Ad alcune di queste domande si trova risposta. Ma nessuna viene posta con forza tale da permetterci di investire le nostre speranze in essa, fondamentalmente perché ciascuna toglie spazio alle altre.
Manca, in conclusione, una motivazione forte che ci spinga a voler veder trionfare i protagonisti. Al di l di "devono vincere perché sono i buoni", non abbiamo molto.

#3 - un buon lavoro sui personaggi, ma con troppa carne al fuoco.

Credo che uno dei compiti più difficili fosse far sì che i nuovi personaggi fossero all'altezza dei vecchi, non in quanto icone (per quello ci vorranno anni), ma capaci di catturare il pubblico in maniera simile. E qui JJ Abrams riesce nel compito, anche se solo in parte, principalmente perché si è ritrovato troppa roba tra le mani.
Si dovevano fare i conti con alcuni ritorni importanti, inevitabili. E un personaggio come Han Solo prende tanto spazio in scena. Inevitabile che lo rubi alle controparti più giovani.
Però c'erano anche i personaggi nuovi: Rey, Finn, Poe Dameron, BB-8, Kylo Ren, il Leader Supremo Noke.
Tra questi, solo Rey e Finn, i due protagonisti, sviluppano un arco personale completo e coerente, che ci porta a credere nell'instaurarsi di un rapporto di stima reciproca e di amicizia.
Gli altri devono fare i conti con il poco spazio che resta loro.

BB-8 risulta essere solo la macchietta comico-tenera. Non ha spazio, né modo, di aiutare effettivamente gli eroi a sopravvivere al loro viaggio (ricordate come C1-P8 bloccasse lo schiacciatore di rifiuti prima che Han, Luke e Leia fossero ridotti a sottilette spaziali?). Ed è un peccato, perché quando annunciarono la sua presenza nel film credevo che l'avrei odiato quasi quanto Jar-Jar, invece è una spalla comica perfetta. Peccato che sia solo questo.

Poe Dameron subisce una sorte forse peggiore. Quella del personaggio dimenticato. Diventa difficile credere all'abbraccio fraterno fra lui e Finn, quando non si sono visti che per pochi minuti all'inizio, condividendo solo un breve viaggio all'interno di un caccia stellare. Che cosa hanno condiviso di così importante da farli diventare fratelli d'arme?
Han e Luke all'inizio non si sono simpatici, anzi: c'è aperta antipatia fra loro. Luke non si fida e Han lo giudica un ragazzino incapace. Le avventure che condividono, però, li legano fraternamente e il loro abbraccio alla fine del film è credibile, perché abbiamo vissuto assieme a loro i pericoli che hanno eliminato le barriere fra loro.

I Leader Supremo del Nuovo Ordine, il novello Imperatore della nostra storia, avrebbe forse beneficiato maggiormente a rimanere nell'ombra, dando nel contempo più spazio ad altre figure più importanti per la storia in atto.

#4 - la casualità di comodo interviene forse troppo spesso.

Questo è una cifra stilistica in cui Abrams ha il vizio di incappare un po' troppo spesso. Pensiamo al suo Star Trek (il primo): verso la metà, Kirk viene abbandonato su un pianeta. Per lui dovrebbe essere la fine dell'avventura: non c'è modo di fuggire. Ma qui, guardacaso, trova lo Spock proveniente dal futuro, che gli può chiarire tutti i misteri accumulatisi fino a quel punto. Sempre per caso, qui  si trova anche l'ingegnere Scotty (mai visto o menzionato prima nel film) che, sempre guardacaso, è l'unica persona in tutto l'Universo a poterlo teletrasportare sulla nave dalla quale è stato cacciato mentre sta viaggiando a velocità warp. Tutta una serie di soluzioni comode volte a mandare avanti la trama nella direzione voluta. In questi momenti, la mano dell'autore è troppo visibile e la credibilità del film ne risente: come si può chiedere allo spettatore di temere per il protagonista, quando, nel momento di massima difficoltà, le cose si risolvono per caso a suo vantaggio, senza che lui debba far nulla?
E, purtroppo, anche Episodio VII risente di questo effetto, in diverse occasioni. Nulla di grave quanto Star Trek, ma abbastanza da far notare le forzature. Troppe le cose che si trovano "per caso" sulla strada dei nostri eroi, comparendo dal nulla per risolvere la situazione in cui si trovano o puntarli sulla strada giusta.
E questo è un gran peccato perché, con la mano di Kasdan nella sceneggiatura, credo si avesse il diritto di pretendere un po' di più.

#5 - ci sono guizzi di regia veramente spettacolari, degni della Hollywood migliore.

Fermiamoci un momento a considerare chi sia JJ Abrams. Questo tipo ha tirato fuori Cloverfield, che è un piccolo gioiello di sequenzialità narrativa (all'epoca in cui uscì al cinema, fui incapace di apprezzarlo pienamente).
Però è anche la mano dietro a due Star Trek decisamente banali, sia dal punto di vista narrativo che visivo. Il suo abuso del lens flare (un trucco con cui si ricrea artificialmente un tipo di ripresa "sbagliato" che avviene quando la telecamera punta direttamente contro una sorgente di luce, creando un bagliore che nasconde parzialmente l'immagine) è stato così plateale da diventare un meme internettiano.
Sarò onesto: non mi aspettavo alcunché di notevole. Meno che mai nel reparto luci.
Eppure c'è un momento che mi ha smentito (e qui proverò a spiegarmi senza però fare spoiler, perché sto parlando della scena madre del film): abbiamo un personaggio dilaniato dal conflitto fra il Bene e il Male presenti in lui. Per Star Wars, un tema classico. Il modo in cui questo scontro di emozioni viene mostrato su schermo mi ha colpito, nella sua semplice efficacia: da un lato, la luce che l'ambiente proietta sul viso del personaggio è rossa, sanguigna. Dall'altro, una luce azzurra, gentile (e sappiamo che la contrapposizione di questi due colori è particolarmente emblematica per Star Wars). Il volto è diviso a metà: il Bene e il Male sono in equilibrio. E quando, nel momento decisivo, una delle due si affievolisce, sappiamo con un attimo di anticipo ciò che sta per succedere.
Fra i migliori dell'intero film, questo momento rende piena giustizia all'immensità dell'azione.
Non vi dico altro. Se non l'avete ancora visto, capirete nel momento giusto.

Tirando le somme, il film mi è piaciuto davvero molto. Ci sono tutti gli ingredienti delle Guerre Stellari vere, quelle che ricordiamo sin da piccoli, ma ammodernate, spesso in senso positivo. Episodio VII è per tanti versi un remake, tutto sommato ben riuscito.
Rivaleggia con i tre film vecchi? No, secondo me. Del resto, non mi aspettavo che lo facesse: la vecchia trilogia è nel mio, nel nostro cuore da tanto tempo. Ben difficile sostituirla ora.
Credo però che sia un film capace di conquistare le nuove generazioni di piccoli starwarsiani e che sia un degno testimone a cui passare la torcia (laser, ovviamente).

E' la nostra Galassia.
E' il nostro parco giochi.
E' la nostra casa.

Sono rimasto molto colpito dal lavoro di Abrams, che ha mostrato un rispetto enorme per l'ambientazione, molto più di quanto non si possa dire dello stesso George Lucas.
Il Risveglio della Forza non è un film perfetto. Avrebbe potuto essere solo un giocattolone con le luci. Avrebbe potuto essere un nostalgia trip fine a sé stesso. Avrebbe potuto essere solo un altro capezzolo da cui mungere la vacca piena d'oro che è questo immenso franchise.
E invece, grazie anche alla passione con cui è stato realizzato, è una porta nella fantasia, che ci riconduce in quella Galassia lontana lontana, dove la Forza è un campo di energia mistica che circonda e unisce tutte le cose viventi, dove le astronavi volano nell'iperspazio e le battaglie vengono combattute a colpi di spade laser.
E' la nostra Galassia.
E' il nostro parco giochi.
E' la nostra casa.

sabato 31 ottobre 2015

One-Two Combo - Episode 1 - Daredevil

Prima di tutto, le regole.
Una storia. Due colpi.


Funzionerà così: sceglierò un titolo, che potrà essere qualunque cosa, romanzo, fumetto, serie Tv, film, videogioco... a patto che racconti una storia. Quindi, gli mollerò una veloce combo di due cazzotti sotto forma di commento, prendendo di mira un particolare aspetto di quel titolo. Solo due cazzotti e via. Nessun giudizio.


Come due che si incrociano per strada e uno molla all'altro due cazzotti in faccia, per poi tirare dritto. Non si odiano. Non sono amici. Si sono semplicemente incontrati.

Il primo sventurato a incrociarci sul nostro squallido marciapiede dei sobborghi è Daredevil di Drew Goddard, serie TV che trovate su Netflix. E dato che Netflix c'è anche qui in ita e che si tratta di un'offerta superba, non fate gli stronzi con i torrent e fatevi l'abbonamento, che costa due lire.


Ma passiamo all'azione.

#1 - quick jab) La sigla. Guardatevela.



Mi piace l'idea della città costruita con il sangue. Un sangue viscoso, sporco, che non ti laverai mai dalle mani. E il parallelo tra il volto della Giustizia e quello di Daredevil, anche loro plasmati da un denso velo sanguigno, sono un'immagine bella potente ed efficace. Un minuto basta per trasmetterci tutto ciò di cui abbiamo bisogno per iniziare.

#2 - uppercut) Le lezioni. Quelle apprese dalle altre serie e dalle cose passate. Perché, ammettiamolo, Daredevil è la risposta (volontaria o meno) che la Marvel rivolge ad Arrow della DC e lo fa non in punta di fioretto, ma con un elegante cazzotto alla mascella. Serie cupa, realistica (realisticheggiante), in cui la città è un teatro sporco e corrotto in cui il disonesto ha il potere assoluto. Ma dire solo questo sarebbe limitativo. Senza roba come Kickass, Daredevil non avrebbe visto la luce, non in questa veste. Perché è Kickass, cinematograficamente parlando (dunque non parliamo del fumetto di Millar/Romita Jr: c'è indubbiamente la connessione, ma se seguissimo questo filo, ci imbarcheremmo in un incontro sul ring a dieci riprese, a noi interessano due semplici pugni), a dimostrare che il genere supereroistico può avere successo con il grande pubblico pur essendo declinato in un'ambientazione in cui il cattivo è un gangster vero, che uccide senza remore appena ne ha l'occasione e non aspetta chissà quale convergenza mistica per ucciderti, non ti deve dimostrare nulla, non ti spiega il piano prima di ucciderti. Ti cerca, ti bracca, tortura, mutila e uccide tutto ciò che può portarlo a te e quando ti raggiunge ti ammazza. Fine. Vuoi vivere? Non farti trovare. La sensazione di pericolo vero deriva da qui, non dalle capacità del protagonista, ma da un cattivo che si comporta da persona reale, uno che ha un sacco da perdere, né remore morali di alcun tipo a rimuovere qualunque ostacolo gli si pari davanti. Soprattutto, uno che ha il potere per farlo.

Bum-bum. Uno-due.
Per oggi è tutto.

Tiriamo dritti nella luce giallastra dei pochi lampioni traballanti che ancora cercano di illuminare questi vicoli pieni di spazzatura. Testa incassata fra le spalle, solleviamo il cappuccio e continuiamo per il nostro cammino, le nocche a mala pena arrossate da questo primo incontro fortuito.

giovedì 30 luglio 2015

Vendiamo Aria Fritta



Morale della storia: non si butta via nulla.

Never ever ever ever ever ever.

lunedì 20 luglio 2015

Viaggi nel Tempo, Paradossi and Other Wibbly-Wobbly Stuff.

Tra le mie tipologie di storie preferite ci sono quelle sui viaggi nel tempo, non tanto quelle in cui semplicemente si va nel passato e finisce lì.
Intendo dire proprio quelle storie in cui il rapporto di causa-effetto viene messo in discussione, in cui un avvenimento del finale influenza l'inizio della storia, piuttosto che fare il contrario.

Meglio ancora se l'avvenimento nel finale scatena la storia nella parte iniziale, che poi a sua volta influenza quella finale...
Vi gira la testa? Bene! E' proprio per questo che esistono le storie dei viaggi nel tempo.

Mi piacciono, dicevo, perché per funzionare ed essere buone storie devono seguire necessariamente una logica feroce e inflessibile. Accettato il paradosso per cui il passato diventi futuro e per cui ciò che accade dopo può influenza quello che è già avvenuto (perché, di fatto, le posizioni temporali sono invertite e il momento dell'azione è il passato stesso), tutto quello che ne consegue deve funzionare come un orologio svizzero. Per questo, oltre che piacermi in quanto lettore, mi piacciono in quanto autore: rappresentano una sfida mentale.

Recentemente, ho scritto proprio una storia di questo genere e mi sono trovato a confrontarmi, per necessità, con il dilemma della spiegazione: è inutile, se si va al di fuori dell'ordinario, una spiegazione ci vuole. Non è tanto il problema del classico spiegone ad avermi fatto riflettere, quanto più la preoccupazione per cui la spiegazione suonasse così: "Wibbly-wobbly, timey-wimey!"

Se non sapete a che cosa si riferisca questa frase, ve lo spiega lui:



A prima vista, questa spiegazione può sembrare una paraculata svogliata dell'autore.
Non è così.
Perché?
Perché il viaggio a ritroso nel tempo è impossibile e perché i paradossi da esso creati sono impossibili. Per cui, ogni spiegazione, anche la più logica e razionale, ridotta ai minimi termini, è esattamente questo: "Time is a big ball of wibbly-wobbly, timey wimey stuff."

Quindi, la spiegazione, riflettevo, diventa inutile, perché alla fine sarà sempre quella: abracadabra.
Vuol dire che possiamo rinunciare alla logica?
Assolutamente no. Mai. La logica interna di queste storie è la cosa più importante: senza, tutto l'impianto narrativo crollerebbe come un castello di carte di fronte a una turbina a reazione.
E allora, come fa il lettore a capire quello che succede?
Lo capisce perché lo vede e perché lo capisca, deve vedere.

Perché anche se l'azione, narrativamente parlando, non è altro che un mazzo di carte che, nel caso dei viaggi temporali, viene mischiato in modo da avere rapporti di causa-effetto invertiti, il lettore la sperimenta da un punto di vista lineare: fintanto che può assistere all'azione e fintanto che l'azione ha senso, il lettore non ha bisogno di spiegazioni. Succede, dunque esiste.

E' il motivo per cui tu non hai bisogno di nessuna spiegazione sul ritorno a casa di Marty McFly, che si risveglia trovando una famiglia specularmente diversa da quella che ha sempre conosciuto.
Come è possibile che lui ritorni a una situazione così diversa? Come mai non ne ha alcun ricordo? Se le foto cambiano, anche la sua memoria dovrebbe subire lo stesso cambiamento, no? Dovrebbe, in qualche modo, "aggiornarsi".
Ma, appunto, se ci addentriamo in questo genere di spiegazioni, tutte le tecnicalità logiche di questo mondo non potranno che essere "wibbly-wobbly, timey-wimey stuff."
Ed è giusto che sia così.

Buffo come, in ogni storia in cui il viaggio nel tempo sia un fattore, tutti abbiano comunque una fretta del diavolo.
Tranquillo, hai letteralmente tutto il tempo dell'Universo a disposizione.

martedì 30 giugno 2015

Aliens of London... or is it Washington?

Ho riso molto, quando ho notato che Mr. Chris Christie, coinvolto nelle prossime corse presidenziali americane...

 Cioè, questo tipo qui...

... Assomiglia in modo preoccupante...
A questo tipo qui?

Non ci resta che sperare nell'arrivo del Dottore.

lunedì 29 giugno 2015

Il Segreto Svelato

Lo scorso Gennaio, Gaiman risponde a un fan che gli chiede come si fa a diventare scrittori ("E' un po' che provo a scrivere. Ho tutte queste idee meravigliose, ma è molto difficile mettere i miei pensieri su carta. Quindi, le mie idee non si realizzano mai. Hai qualche suggerimento?") e, dopo aver tentato di snocciolargli la balla che snoccioliamo a tutti quelli che ci fanno questa domanda ("Scrivi storie che ti piacerebbe leggere, finiscile, poi riprendi a scrivere."), decide di svelargli il segreto iniziatico che custodivamo gelosamente, tramandandolo di generazione in generazione.

"Sulla cima di una montagna remota, cresce un albero con foglie d'argento. Una volta all'anno, all'alba del 30 di Aprile, sull'albero sbocciano cinque fiori e, nell'ora successiva, ciascun bocciolo diventa una bacca, dapprima verde, poi nera, poi d'oro.
Nel momento in cui le bacche diventano d'oro, cinque corvi che attendono sulla montagna, e che tu avrai confuso con la neve, planeranno sull'albero, strappandogli avidamente tutte le bacche, quindi voleranno via, ridendo.

Dovrai afferrare, a mani nude, il più piccolo dei corvi e dovrai obbligarlo a darti la bacca (i corvi non le ingoiano. Le portano lontano, al di là dell'oceano, nel giardino di un incantatore, per depositarle, una per una, nella bocca di sua figlia, che si sveglierà dal proprio sonno incantato solo quando si sarà cibata di mille di queste bacche). Quando avrai ottenuto la bacca, dovrai mettertela sotto la lingua e tornare direttamente a casa.

Per la settimana successiva, non dovrai parlare con nessuno, nemmeno ai tuoi cari, o a un agente della stradale che ti fermi per eccesso di velocità. Non dire nulla. Non dormire. Lascia riposare la bacca sotto la tua lingua.

A mezzanotte del settimo giorno, dovrai andare nel posto più alto della tua città (comunemente, ci si arrampica sui tetti, in questa fase) e, con la bacca tenuta saldamente sotto la lingua, reciterai per intero Fox in Socks. Non lasciare che la bacca ti scivoli via dala lingua. Non dimenticarti parti della poesia e non saltare la parte che fa 'Muddle Puddle Tweetle Poodle Beetle Noodle Bottle Paddle Battle'.

Allora, e solo allora, potrai ingoiare la bacca. Dovrai tornare a casa il più velocemente possibile, perché avrai al massimo mezz'ora, prima di cadere in un sonno profondo.

Quando, al mattino, ti sveglierai, sarai in grado di mettere i tuoi pensieri e le tue idee su carta e sarai uno scrittore."

Dannato Neil Gaiman, ci hai smascherati!

Cinque, eh... mi raccomando il numero.


Qui, il link originale.

E, dato che è corretto citare tutte le fonti, qui, il link all'articolo di Fumettologica tramite il quale ho scoperto questo gustoso episodio (ho usato una traduzione mia, non la loro: se trovate degli errori e delle imperfezioni sul mio post, sono mie).


domenica 28 giugno 2015

Far Casino e Rimediare

Prima o poi, succede, inevitabilmente.
Per quanta meticolosa attenzione tu possa fare, capiterà sempre quella sceneggiatura che, giunto a una certa tavola, ti rendi conto di dover tornare indietro e smantellare tutto.

Quando questo capita sotto consegna, c'è bisogno di rifare tutto in gran velocità e per di più, in modo che funzioni. Questo può mettere in grande agitazione.
Ma calma e sangue freddo, perché non tutto è perduto.




Holy writer's drama, Batman!

Se ci fermiamo a riflettere, infatti, capiamo che le cose non sono nere come si potrebbe pensare inzialmente. Se ci hai messo tre giorni ad arrivare al punto in cui ti trovi quando prendi coscienza del disastro, non vuol dire che te ne serviranno altrettanti per rimettere le cose a posto.
In primo luogo, è improbabile che sia tutto quanto da buttare e rifare daccapo.
Ci saranno parti che potrai conservare intatte, altre che dovrai conservare intatte.
E, anche considerando lo scenario peggiore, quello del decollo & nuclearizzazione totale, considera che, comunque, una traccia su come far procedere le cose la hai già e, per lo meno, saprai che cosa non fare.

Seconda cosa: avere gli strumenti. Serve, a questo punto, un modo per analizzare quello che hai scritto, sminuzzarlo e sezionarlo. In questo momento sei un chirurgo che deve rimuovere le parti malate.
Servono un bisturi e un tavolo operatorio, nulla di più.


Infermiera, bisturi...
... E tavolo operatorio.

Eccoli qui i nostri strumenti. Sediamoci con calma e usiamoli.
Avendo a disposizione un griglia del genere, possiamo visualizzare in maniera rapida e immediata le nostre tavole, appuntandoci dialoghi e descrizioni in forma stringata e, soprattutto, avendo tutto lo spazio per disegnarci la gabbia all'interno di ciascuna tavola, segnarci le pagine dispari per il voltapagina e via dicendo.

Ed ecco il paziente dissezionato.
Non fa più così tanta impressione, vero?
In questi casi,  invece di disegnare ogni volta una griglia diversa, che a farla a mano viene disordinata e imprecisa, ho disegnato accuratamente quella che vedete negli esempi e l'ho scansionata per uso futuro. Si tratta di una griglia di base, in un formato facilmente adattabile alle varie esigenze.
Questo è il metodo con cui io mi trovo a mio agio, dovendo intervenire in casi d'urgenza, permettendomi di vedere fisicamente come sarà la storia, una volta considerata l'impaginazione.


sabato 13 giugno 2015

No Way Out

Ci è già capitato di parlare delle comparse nei film, ma ci siamo concentrati sempre su come debba comportarsi una comparsa per sopravvivere al film.
Il punto è che ci sono situazioni senza via d'uscita, dalle quali il nostro povero personaggio di contorno non può sperare di uscire bene.
Per esempio: quando una comparsa viene mandata a fare un lavoro ingrato, la possiamo considerare morta dall'istante in cui l'ordine viene impartito. Perché lo sappiamo tutti che nelle stive della Nostromo non si nasconde più l'embrione di Xenomorfo, grosso quanto un topo, ma la sua versione adulta e incazzata.

Un sorriso che buca lo schermo.
E la calotta cranica.

Certo, la nostra comparsa ha sempre la possibilità di ignorare l'ordine e andare invece a schiacciare un pisolino. Ma, qualora lo faccia, l'alieno assassino si nasconderà esattamente nel punto da lui scelto per l'irregolare siesta quotidiana.
Non funziona nemmeno fiutare l'aria grama per tempo e nascondersi per impedire che il comandante dia l'ordine: nel posto in cui la nostra pavida comparsa deciderà di nascondersi onde tutelare la propria incolumità, lo attende sicuramente la creatura di cui cerca disperatamente di non fare la conoscenza.
Non c'è scampo: questa regola non perdona.

Se sei giunto fin qui, è decisamente troppo tardi.


lunedì 4 maggio 2015

May the 4th... Again!

Ebbene sì, è di nuovo arrivato lo Star Wars Day...
Questa volta, lo festeggiamo con un'immagine della NASA:


May the 4th be with you!

venerdì 17 aprile 2015

Esaltarsi a 34 Anni



In questi giorni sta succedendo una cosa bellissima: siamo in tanti.
Persino dopo la recente trilogia, siamo qui, tanti, tutti esaltati come bambini, anche quelli che, come me, bambini non lo siamo più da qualche lustro. Anagraficamente parlando, per lo meno.
E' una cosa bellissima, dicevo, perché significa che siamo in tanti a sapersi riscoprire bambini, in tanti a credere ancora, dopo il pasticcio che Lucas ha fatto con gli ultimi tre film, di poter sognare e divertirsi in quella Galassia lontana lontana....

Star Wars non è morto.
Perché noi siamo Star Wars.

E la Forza è con noi.

Star Wars, in un'immagine.
A velocità luce, dritti verso l'ignoto e l'avventura.

lunedì 13 aprile 2015

L'Auto Rigata di Vincent Vega


Pulp Fiction è un classico, ormai. Un collage episodico con dialoghi strepitosi e situazioni sopra le righe.

Uno di questi dialoghi riguarda l'automobile di Vincent Vega (John Travolta), che un ignoto figlio di ignoti ha rigato.



Ora, esiste una teoria, spiegata in questo post, che svelerebbe l'identità dell'autore dell'ignobile gesto.
Il colpevole: Butch (Bruce Willis).
Le motivazioni: i due personaggi sono visti faccia a faccia solo in due occasioni, una delle quali, nel bar del gangster Marsellus Wallace (Ving Rhames), li vede immediatamente ai ferri corti per uno sguardo storto nel momento sbagliato. La teoria sostiene che, dopo il confronto, Butch, bisognoso di rivalsa, avrebbe rigato l'auto di Vince, che poi se ne lamenta con il pusher. Plausibile? Sì, perfettamente.
Le prove: Tarantino stesso ha confermato che sì, è così.

E invece, non è proprio possibile.

Ci sono, purtroppo, due particolari a confutare questa teoria.
Primo: Butch e Vince non si sono mai incontrati prima. Come farebbe dunque Butch a sapere quale auto rigare? Non può.
Ma questa è solo una supposizione, sia pur ragionata. Per questo, è importante il secondo particolare.
Per capirlo bene, bisogna fare un po' di collage, a causa dell'ordine misto in cui ci vengono presentati gli episodi.

Il giorno in cui avviene il confronto fra i due, nel bar di Marsellus, è il Day 1.
Poco prima del battibecco, il barista discute giocosamente con Vince del fatto che, l'indomani, dovrà uscire con la moglie di Marsellus, Mia (Uma Thurman).
Day 2, dunque, è il giorno dell'appuntamento.
Prima dell'appuntamento, Vince va dal proprio pusher e compra una dose di eroina. Durante la transazione, avviene la conversazione di cui avete appena visto il video. Il particolare rivelatore è qui, ma ne discuteremo fra un attimo.
Prima, stabiliamo perché questo sia necessariamente prima dell'appuntamento con Mia e non dopo: la dose acquistata da Vince, infatti, verrà utilizzata da Mia, causando un'overdose. Inoltre, si porrà rimedio a questa overdose proprio grazie al pusher e a sua moglie e, durante la scena di cui sopra, Vince ha incontrato la moglie del suo amico per la prima volta.

Allora, se Vince ha mangiato rucola alle 13:32 e Butch ha usato la lavanderia a gettoni all'angolo tra l'Ottava e la Quinta...

Stabilito l'ordine degli eventi (cioè: day 1, confronto, day 2 discussione sulla riga all'auto), il particolare rivelatore che contraddice la teoria dei fan, confermata da Tarantino, è il seguente: quando Vince parla dell'episodio, dice chiaramente "the other day", non "yesterday".
Se parlasse di un avvenimento di cui Butch è stato responsabile, direbbe "yesterday", mentre, temporalmente, "the other day" si riferisce a qualche giorno prima, sicuramente precedente a "ieri".
Può sembrare un particolare di scarso valore, ma è particolarmente solido se si pensa che, nei suoi dialoghi, Tarantino pone una cura estrema: se avesse voluto lasciare intendere che sia stato Butch, avrebbe fatto dire a Vince "yesterday".

What?!?

Che cosa è successo dunque?
Niente, semplicemente che Tarantino ha gradito questa teoria e l'ha voluta confermare, indubbiamentecon l'intento di far piacere a chi si è dato la pena di studiare il film abbastanza a fondo da fare questo collage di eventi (che è anche ben studiato, se non per i particolari appena discussi).

Peccato, e lo dico senza ironia, perché era una bella teoria.

sabato 28 marzo 2015

Due Ruote

Mettiamo un attimo da parte film, telefilm, fumetti e libri. Niente analisi, niente opinioni o commenti. Alla larga dalle riflessioni.
Oggi parlo di una mia passione personale, che nulla ha a che fare con il mio lavoro: le due ruote.

Questa è la mia due ruote, mentre riposa durante uno dei miei giri.


Da piccolo, la moto esercitava su di me il fascino che esercita, penso, su qualunque bambino: puoi metterla come vuoi, ma è il mezzo di trasporto più figo mai inventato dall'uomo. A ben pensarci, da adulti non cambia poi molto, la cosa.

Ma io sono una bestia strana e non ho mai imparato ad andare in bicicletta fino ai 12 anni.
Questo mi ha portato a una sorta di timidezza nei confronti del mezzo a due ruote. Se ci aggiungiamo che, anche togliendo questo fattore, non ho mai avuto la benché minima voglia di avere il motorino, decisamente in controtendenza rispetto a quasi tutti i ragazzi della mia età, si può pensare che la passione per le moto fosse rimasta una cosa dell'infanzia, di quelle che abbandoni crescendo.

Per niente. Le moto hanno continuato a piacermi e ad affascinarmi.
A 14 anni, il mio tesoro più prezioso era un giubbetto di pelle tipo "chiodo", che ai miei occhi faceva tanto biker duro e puro. Ho preso il mio primo paio di anfibi, rigorosamente a stivaletto, per fare il paio. Ok, non nego che all'epoca tanta parte in questa fascinazione per lo stile nascesse da Arnold in Terminator 2.
A 15 anni andavo per strada canticchiando "Bad to the Bone" tra me e me, come se nulla fosse.

Non c'era niente di più esaltante al mondo, ai miei occhi, della scena in cui il Terminator, in sella a una rombante Harley-Davidson, salta giù da un viadotto per salvare John Connor.

Se la passione per le Harley-Davidson fosse un crimine, Terminator 2 e Renegade (sì, quello con Lorenzo Lamas) avrebbero trent'anni da scontare per aver plagiato il sottoscritto.

Si può essere più fighi di così?
No.

Ma, crescendo, l'idea di imparare ad andare in moto si è fatta sempre più remota, complice la mia scarsa dimestichezza con la bicicletta. Mi sono lasciato scoraggiare per anni dal fatto di non avere esperienza sulle due ruote: "Non hai mai guidato un motorino, stai in equilibrio precario su una bici, figurarsi mettersi in sella a una moto."

La vita prosegue con i suoi ritmi e le sue strade tortuose, fino al 2011, quando una mia carissima amica mi parla di Sons of Anarchy, presentandomelo così: "Cazzo, Lele, se ti piacciono le Harley, non puoi perdertelo!"
Ed era vero: la mia passione per le moto, a lungo sopita, si era risvegliata e, questa volta, unita alla voglia di comprarmi una Harley-Davidson.
Ovviamente, questo avrebbe richiesto di vincere la mia incertezza e imparare finalmente ad andare in moto. Non è stato un processo rapido: ci sono voluti due anni, prima di decidermi, perché non mi piaceva l'idea di imbarcarmi in quest'impresa con la possibilità che si rivelasse una "scimmia" passeggera.
Sì, sono soggetto a queste sbandate.
Volevo essere sicuro che fosse una cosa seria.
Lo era.

Inizio a contare i soldi, a fare i vari programmi. Verso la fine del 2013, trovo la moto giusta: una Guzzi v35 rossa fiammante, classe 1984. Rimediato il mezzo, non avevo più scuse: mi sono iscritto a scuola guida.

La primissima lezione è stata imbarazzante, al punto che l'istruttore, vedendomi incapace di fare 20 metri in linea retta nel parcheggio dell'autoscuola, mi ha detto: "Non mi piace come vai in moto. Scendiamo in strada."
Alle 19:00 di sera. Gennaio. Pioveva.
Come mi sono comportato? Credo di aver avuto trentaquattro infarti al miocardio nel giro dei dieci minuti che ci sono voluti per fare il giro dell'isolato: non trovavo l'inclinazione giusta per gli specchietti, non riuscivo a dosare l'acceleratore, frenare era un delirio, perché perdevo assetto ed equilibrio e rischiavo di finire a terra ogni volta che sfioravo il freno. In più, non essendo abituato al manubrio, mi sono escoriato le nocche di entrambi i pollici (sì, sto dicendo la verità; no, non ho idea di come sia successo). Il tutto, circondato dal traffico di fine giornata, con maree di impiegati stressati al volante, gente che non vede l'ora di allungare i piedi sul divano e non fare un cazzo fino al giorno successivo e, invece, si trovano davanti questo imbecille di principiante che tenta disperatamente di rimanere in equilibrio su un mezzo progettato per una persona alta all'incirca la metà di lui.

Dire che, mentre tornavo a casa, mi sentivo demoralizzato sarebbe calare di molto i toni della faccenda: ero convinto di aver fatto il più madornale errore della mia vita. Non ero fatto per andare in moto.
Quello che mi ha fatto cambiare idea è stata la caterva di persone che sfrecciavano per strada, in sella al loro scooter o alla loro moto.
Lo vedo e penso: ma se ce la fanno loro, perché io no? Non bisognerà certo essere degli scienziati, no?

Mi presento alla seconda lezione. L'istruttore, questa volta, mi mette su una 125cc, un po' più consona alle mie proporzioni, lasciando il motorino da nanerottoli a parcheggio. Memore della lezione precedente, mi porta in un'area vuota, dove, con mia sorpresa, scopro di riuscire, effettivamente, a procedere dritto.
Letteralmente una sorpresa: è come se il mio corpo avesse studiato in mia assenza, riavvolgendo i nastri delle registrazioni della mia prima lezione, analizzando gli errori e correggendoli. Riesco a stare in equilibrio e risolvo persino l'enigma delle curve.

Che cos'è l'enigma delle curve?
Ve lo spiega lui:


In sei mesi di lezioni, sono passato dal 125 al 650cc, finendo persino per dare l'esame con successo al primo colpo: non ci credevo. Davvero, ero convinto che sarei tornato a casa con un fallimento in saccoccia, che avrei toccato uno degli stramaledetti birilli con la punta del piede o qualche altra minuzia del genere.
E mentre tornavamo indietro, l'istruttore mi dice: "Te lo sei meritato. Hai lavorato duro per tutti questi mesi. All'inizio non sapevi fare un cazzo, ma ti sei impegnato ed è giusto che tu abbia avuto questa soddisfazione."

Questo avveniva il Giugno scorso. Ho avuto un'estate intera per girare la costa ligure sulla mia Guzzi. Nel frattempo, ho imparato a prendermene cura, almeno nelle cose di base: cambio olio motore, freni anteriori, freni posteriori e via discorrendo.
E ho scoperto che, sì, guidare l'automobile fuori città mi rilassa come poche altre attività, ma fare gli stessi percorsi in moto è un'esperienza allo stesso tempo estremamente rilassante ed estremamente esaltante.
In moto, sei solo con i tuoi pensieri, a contatto diretto con la strada, che ha un suo ritmo, un suo "respiro" fatto di curve e odori che si susseguono, mentre l'aria ti scorre addosso o ti batte sul petto.

Non è facile da spiegare: agli occhi di un esterno possono davvero sembrare i classici cliché sulla mistica dell'andare in moto. Mi tocca rispondere con un altro cliché: bisogna provare, per capire.

Foto di un tramonto, scattata sulla spiaggia, alla fine di un giro in riviera.
Pura poesia.


In questi mesi, mi son reso conto di essere cambiato:quella che era un'infatuazione per l'idea di andare in moto è diventata una passione vera e propria, capace di catturarmi e di farmi andare avanti ininterrottamente a parlarne.
Come ora.

Basta, vi lascio andare, ciao!

mercoledì 25 marzo 2015

Pro Tip

Pssst, tre veloci consigli per una vita professionale priva di figure di sostanza espulsa dal tratto digerente...

Professional tip #1: evitare di mandare affanculo il prossimo in una mail di lavoro. Fai la figura di quello che è maleducato e poco professionale.

Professional tip #2: qualora non si ascoltasse il #1, evitare di rendere pubblica la mail in cui lo hai fatto. Fai la figura di quello che è maleducato, poco professionale, rosicone e primadonna.

Non è che dobbiamo essere per forza tutti amiconi e volerci bene benissimo a tutti i costi.
Ma la fama del cretino è dura scrollarsela di dosso.

Fuck you... con simpatia.

venerdì 13 febbraio 2015

[Donne di Carta] Le Donne di Conan

Il mese scorso, abbiamo parlato di Conan. Torniamo questa volta sullo stesso argomento, perché, scrivendo quel post, ho cominciato a pensare che potrebbe essere interessante soffermarsi un attimo su un argomento in quell'occasione appena sfiorato, ma, a mio avviso, degno di nota: le donne di Conan, come già avrete intuito dal titolo di oggi.
Considerate pertanto qeste righe come un'appendice del post di Gennaio, un approfondimento, se vogliamo.

Cominciamo facendo per un momento il punto della situazione: per capire in quale contesto agiscano i personaggi femminili di Howard dobbiamo, ovviamente, averne chiare alcune coordinate.
Primi anni '30. La letteratura pulp su riviste come Weird Tales, Horror Stories e Argosy è al suo apice.
Soprattutto per quanto riguarda il genere Sword & Sorcery, l'eroe tipico è l'archetipo del maschio alfa e il ruolo della donna è semplicemente quello di comprimario bisognoso d'aiuto e protezione contro i numerosi pericoli del mondo. In altre parole: tutto rientra perfettamente nella mentalità di un'epoca in cui è l'uomo ad avere il diritto di badare alla casa, mentre è scandaloso se una donna indossa i pantaloni anziché la più appropriata gonna (e teniamo bene a mente questo particolare, perché ci servirà in seguito).
Il concetto di donna-oggetto è qui esasperato alla massima potenza: la donna nei racconti pulp esiste per procurare guai al protagonista o per esaltarne le qualità virili. La terza opzione è fare entrambe le cose contemporaneamente.
Pensiamo a John Carter di Burroughs (1917 l'anno della sua prima comparsa): la principessa Dejah Thoris è l'archetipo della damsell in distress. Bellissima, assai intelligente, altera e orgogliosa, ma, in termini pratici, incapace di opporsi al Male che la minaccia: ha bisogno di John Carter per salvare sé stessa e il pianeta su cui vive.

"Dato che sei una donna, non sei capace di badare a te stessa.
Per tua fortuna, oggi non ho impegni..." [tipica frase di un virile eroe pulp]

Le eroine vere e proprie, come la Jirel di Joiry di Moore devono ancora nascere, anche se il loro arrivo è sempre più prossimo e cambierà non poco la faccia della letteratura Sword & Sorcery. Per il momento, però, siamo in un ambiente ancora largamente a cromosoma XY.

Ed è proprio in questo contesto che si inseriscono le donne di Robert E. Howard. Non che il suo protagonista si discosti molto dall'archetipo vigente: Conan è l'incarnazione dell'anti-eroe pulp. E, dobbiamo dirlo, la maggior parte delle donne di Conan aderisce alla tipologia dominante di "fanciulla bisognosa di protezione".
E, del resto, finiscono tutte per innamorarsi perdutamente del barbaro, per quanto inizialmente resistano alle sue chiassose e ingenue (ma sempre virilmente rudi) anvances.


Nella storia editoriale di Conan, la prima fanciulla ad avere gli onori di un personaggio completo e sviluppato completamente (in senso di arco narrativo) è la regina Yasmela, giovane reggente di un piccolo regno, la cui virtù è minacciata, assieme al suo regno, da un terribile stregone invincibile.
Incapace di reagire, si affida a Conan, che la salverà, ottenendone le grazie.

Come vedete, qui non c'è nulla di nuovo sotto il sole. Siamo nel 1933 e il racconto in questione è Black Colossus. Del resto, è appena la quarta avventura di Conan.

Dell'Aprile successivo (1934), è il racconto Iron Shadows in the Moon, che già ci presenta una variazione, piccola, ma significativa, del personaggio femminile indifeso e inerme. Olivia è una schiava fuggita al serraglio di un crudele padrone che Conan uccide (non per salvare la fanciulla, ma perché avevano conti in sospeso da regolare: nella fattispecie, Conan vendica i suoi compagni uccisi dallo schiavista).
Non avendo dove andare, Olivia si accompagna a Conan e, assieme a lui, approda su un'isola nelle cui giungle si annidano pericoli indicibili, tra cui una scimmia antropofaga e un sito in rovina in cui misteriose statue di ferro si animano con intenti omicidi al brillare della luna (le ombre striscianti del titolo).
I pirati che approdano in cerca di un rifugio sembrano il minore fra i pericoli, ma, ciononostante, riescono a catturare Conan, lasciando Olivia in balia di misteri minacciosi, indifesa.
Ed è qui che le cose si fanno interessanti, in un'inversione di ruoli decisamente strana, per l'epoca: la ragazza si arma di coraggio e, sfidando la sorte, si introduce nell'accampamento dei pirati, riuscendo a liberare Conan prima che le statue di ferro si animino per seminare morte fra gli incauti scorridori del mare.

Un primo, timido tentativo, subito corretto: nel finale, Olivia viene difesa da Conan contro la scimmia antropofaga, in un duello all'ultimo sangue, rapido e brutale come tutti i combattimenti descritti da Howard, che non si perdeva in descrizioni spettacolari, ma rendeva in maniera eccellente la letalità e i frenetici movimenti di un combattimento, come fossero veri.

Nel Maggio del 1934 (fatto interessante: Jiriel of Joiry nascerà nell'Ottobre dello stesso anno) viene pubblicata l'avventura di Conan intitolata The Queen of the Black Coast, durante la quale facciamo la conoscenza di Belit, la regina-pirata del titolo. E qui assistiamo a qualcosa di davvero particolare: Belit è una regina a tutti gli effetti, ma, a differenza della fragile Yasmela, qui ci troviamo di fronte a una donna in pieno controllo del proprio destino, impavida guerriera, sa che cosa vuole e lo prende, senza aspettare che sia l'uomo a portarle l'oggetto dei suoi desideri.
Immediata l'intesa e la scintilla amorosa con il Cimmero, ma, a differenza delle donne che sono finora entrate nella vita di Conan, Belit non accetta passivamente il "selvaggio fuoco" della passione del barbaro (parole di Howard), ma risponde con un fuoco suo. Nelle scorribande compiute assieme, è lei a mantenere il controllo: Conan è il braccio violento, lei la mente.
Nel finale, benché morta, ritorna dall'aldilà per salvare la vita a Conan, in procinto di essere ucciso da un abominio alato.




La figura forte e indipendente di Belit risultava così aliena agli editori di Weird Tales, che nella copertina dedicata a The Queen of the Black Coast, il personaggio appare abbracciato al vigoroso collo di Conan: un'altra fra le centinaia di fanciulle impaurite e incapaci.
Nulla di più lontano da quanto leggeremo nel racconto.


Si tratta in tutto e per tutto di un personaggio femminile indipendente e in pieno controllo del proprio destino, che accetta le conseguenze fatali delle proprie azioni, ma senza alcuna forma di passività, cosa stranissima per l'epoca (anche se, con l'imminente uscita del personaggio di Moore, qualcosa doveva già essere nell'aria).
Non a caso, nel film con Schwarzenegger, numerosi elementi del personaggio di Belit, incluso il ritorno dall'aldilà, verranno ripresi per il personaggio di Valeria (che fa riferimento a un altro personaggio femminile tratto dalle avventure di Conan, di cui parleremo tra breve).

Finora abbiamo parlato di personaggi positivi. Howard ce ne procura anche di negativi, capaci di sottomettere uomini altrimenti invincibili: è il caso di Tascela, strega-regina della perversa città di Xuchotl, dove è in atto una faida fratricida. Non è infatti il re-guerriero ad avere il dominio sulla città, ma la strega, capace di sopraffare fisicamente anche un uomo dalla forza bruta quale è il selvaggio e perverso re Olmec. Siamo di fronte a un vero e proprio caso di castrazione della figura maschile dominante.

Siamo nel 1936 e il racconto è Red Nails, pubblicato postumo in Ottobre, dopo la morte di Howard a Giugno. Ed è qui che conosciamo il personaggio di Valeria della Confraternita Rossa, guerriera indomita e invincibile, seconda solo a Conan e, per necessità narrative, ai due sovrani della città condannata. Valeria cinge una spada, è facile all'ira e non si concede facilmente a Conan (anzi, è sul punto di sventrarlo, quando lui si fa troppo audace con le proprie attenzioni). Non è vestita come la tipica donna presente nelle avventure del barbaro, vale a dire con un perizoma e tanta aria (persino Belit ricadeva in questo stereotipo), ma indossa una casacca da marinaio, stivali e, cosa inaudita, pantaloni da uomo. Questo a noi può sembrare cosa da poco, ma immaginiamo quale effetto possa aver avuto in un'epoca in cui il pantalone era appannaggio esclusivo dell'uomo e significativo del suo status di "bread winner" all'interno della famiglia. Oggi, siamo abituati a figure femminili in controllo e il pantalone ha superato in uso la più tradizionale gonna, per certi versi vetusta o, al meglio, indumento usato per vezzo ed eleganza.
Fisicamente superiore a quasi tutti gli uomini che incontra, persino Howard si sentì in obbligo di ricordarci esplicitamente che Valeria è una donna e una donna bellissima, per di più. Probabilmente, agli occhi del lettore dell'epoca, così tanti attributi "maschili" presupponevano come minimo una barba dei tre giorni, non certo lo statuario fisico di una modella svedese.
Nel finale, Conan deve salvarla da una morte orribile, ma, a rammentarci che tutto è fuorché una fanciulla indifesa, Valeria in persona si vendica della sua catturatrice, pugnalandola a morte prima che questa riesca a uccidere Conan, a tradimento, in un momento di vulnerabilità successivo a uno scontro mortale.

Al giorno d'oggi, per fortuna, persino questi personaggi, che all'epoca erano fortemente indipendenti, oggi rappresentano, tutt'al più, il minimo sindacale per un personaggio femminile che si rispetti.
Ma, se siamo arrivati a questo punto, lungo un percorso evolutivo durato quasi un secolo, lo dobbiamo anche a queste prime proto-eroine, forse non sempre del tutto indipendenti, ma già lontane dall'esempio di graziosa palla al piede che, seminuda, poteva solo concedersi felice all'eroe di turno, dopo esser stata salvata.
Niente male, per un vigoroso giovanotto cresciuto nel Texas rigido e conservatore.

martedì 10 febbraio 2015

Spider-Man fa il Reboot! (di nuovo...)

Nel palindromo 2002, c'era lo Spider-Man di Raimi, in cui l'adorkable Tobey Maguire liquidava con un "Boh" e una scrollata di spalle l'impossibile trasformazione, nel corso di una notte di sonno allucinato, da nerd secco e miope, a giuovine atletico, muscoloso e scattante.
Scena che è citata sulla Treccani alla voce "sceneggiatori pigri".
Questo film, che emergeva agli albori della smodata passione di Hollywood per i supereroi, faceva il suo dovere nel raccontare le origini dell'arrampicamuri a un pubblico che, fondamentalmente sapeva chi fosse solo perché Max Pezzali l'aveva nominato negli anni '90.

Immagine presa dall'articolo di riferimento.

E ci siamo tutti commossi di fronte al cadavere di Zio Ben. "Da grandi poteri, derivano grandi responsabilità", fino ad allora oscura citazione nerd riservata ai conoscitori di fumetti, è diventata una massima così famosa da divorare sé stessa, tramutandosi in un meme internettiano.

Il sapere dell'elettricista.


Dieci anni dopo, la Sony ci presenta il reboot del personaggio: nuova origin-story. No, scherzo: sempre la stessa. Ben muore. La frase è sempre quella.

Oggi, viene annunciata la tanto sospirata alleanza fra la Sony e i Marvel Studios: Spidey torna a casa e lo fa... CON UN'ALTRA STRACAZZO DI ORIGIN STORY!
Basta, ormai lo sanno anche i muri come nasce Spider-Man.
E basta in generale con le origin story dei supereroi... Tanto sono tutte uguali: persona cara morta, desiderio di giustizia. Persona cara morta, desiderio di vendetta. Persona cara morta, desiderio di avventura. Persona cara morta... Vabbe', avete capito, no? Schioppa sempre qualcuno.

Di questo passo, a diventare un meme internettiano sarà zio Ben moribondo.

martedì 20 gennaio 2015

[Uomini di Carta] - Conan il Barbaro

R.E. Howard (ne abbiamo parlato, in un certo qual modo, qui) entrò con prepotenza sulla scena dei racconti pulp a cavallo degli anni '30, con personaggi quali Solomon Kane, guerriero puritano, avventuriero e cacciatore di demoni e uomini malvagi, Steve Costigan il marinaio giramondo, spesso squattrinato, pugile imbattibile, oppure Kull, re barbarico di Valusia, vissuto ai tempi di Atlantide.
Ma il suo personaggio più riuscito e famoso è Conan, protagonista di una ventina di racconti e di un romanzo, quasi tutti apparsi sulle pagine di Weird Tales fra il 1932 e il 1936, anno della morte per suicidio dell'autore.

Conan, in una delle illustrazioni più famose di Frazetta (dal racconto The Scarlet Citadel, 1933; l'illustrazione è del 1967, per la raccolta Conan the Usurper).

Conan, abbiamo detto, è il suo personaggio più riuscito, al punto da diventare icona imprescindibile di un certo genere di narrativa Fantasy: il cosiddetto 'sword & sorcery'. Conan genera una sfilza incredibile di cloni, imitazioni, derivati, discendenti, parodie, e affini. La vita letteraria del personaggio non si ferma assieme a quella del suo creatore, ma prosegue grazie alla penna di numerosi "eredi", a partire da L. Sprague De Camp, che era quasi coetaneo di Howard, fino ad arrivare a Robert Jordan (autore della colossale The Wheel of Time). Ma il barbaro non si ferma qui: è inarrestabile.
A lui sono dedicate numerose collane a fumetti (cui abbiamo dato una troppo rapida e incompleta scorsa qui) sin dal 1952, con l'adattamento messicano del racconto originale The Queen of the Black Coast e poi con l'assai più noto Conan the Barbarian (Marvel, 1970, Thomas-Smith), che ha generato numerose serie successive, tra cui la recente collana, tutt'ora in corso d'opera, edita dalla Dark Horse Comics.
Ci fermiamo qui? Ovviamente no. Conan vede tre adattamenti cinematografici e mezzo: il primo è, appunto, Conan the Barbarian (1982, regia di John Milius), che consacra Arnold Schwarzenegger come astro nascente nel panorama dell'Olimpo Hollywoodiano. Il secondo è Conan the Destroyer (1984, Fleischer alla regia, avendo Milius abbandonato il progetto).
Nel 1985, viene partorito il "mezzo" in questo nostro conteggio, il figlio bastardo non riconosciuto: Red Sonja. In questo film, basato sulla versione fantasy di un altro personaggi di Howard (sebbene lui la avesse pensata per un'ambientazione settecentesca), compare un personaggio, interpretato da Arnold Schwarzenegger, che è Conan in tutto e per tutto, tranne che nel nome, cambiato all'ultimo per non ricordo quale bega burocratica. Lo conteggiamo come "mezzo" per questo motivo. E, ovviamente, anche perché il film è una porcheria immonda, disconosciuta da Schwarzenegger e più o meno da chiunque lo abbia visto.
Nel 2011, infine, arriva il terzo adattamento, sia pur dimenticabile, per il quale è Jason Momoa a prestare l'abbronzato sembiante al gigante cimmero.

Tutto questo passando per Conan: The Adventurer (serie animata degli anni '90) e Conan, la serie TV, per diversi videogiochi e per innumerevoli cloni, tradotti in ogni media concepibile all'uomo.

Questo enorme successo deriva dalla forza espressiva del personaggio e qui, perdonate la lunga introduzione, giungiamo al punto in questione.

Se ricordate, questa "rubrica" (se vogliamo chiamarla così, senza voler far torto alle rubriche in generale) si basa su tre ipotetici lettori.
Il primo, è quello che liquida il genere Fantasy come materiale da operetta.
Ai suoi occhi, i racconti di Howard sono roba di scarsa qualità: ingenui, ripetitivi, scritti con prosa altalenante e le donne sempre bellissime, sempre in discinte vesti e sempre pronte a gettarsi fra le braccia di Conan. E sempre bisognose di essere salvate, non dimentichiamolo; punto, questo, che potrebbe venir contestato se pensiamo a numerose delle donne di Conan che, tutt'altro che damigelle indifese, sanno invece badare molto bene a sé stesse; pensiamo a Valeria, piratessa indomabile, che, sì, alla fine viene soccorsa da Conan, ma nel frattempo ha dimostrato di saper badare a sé stessa, ammazzando qualche dozzina di assassini degenerati.
Oppure, pensiamo a Belit, regina dei pirati kushiti (praticamente, una tribù di Zulu messi a bordo di un veliero quattrocentesco, a zonzo per coste che somigliano alla Grecia antica, ma anche all'Egitto, ma anche alle giungle fluviali sulle rive dell'Africa Nera): lei non ha bisogno di essere soccorsa da nessuno, è al comando di una ciurma di guerrieri selvaggi che le sono fedelissimi e conquista il cuore del Cimmero, più che abbandonarsi a lui.
E se vogliamo completare questo quadro (ricordiamo che nel periodo in cui questi personaggi vennero scritti ci si scandalizzava ancora se per caso una donna avesse voluto indossare i pantaloni invece della gonna), c'è Zenobia, che è addirittura lei a soccorrere Conan in un momento in cui è prigioniero in preda ai suoi nemici. Stiamo parlando di una visione dannatamente progressista, per l'epoca in cui è contestualizzata.

Conan e la piratessa Valeria alla degenerata corte di Tascela e Olmec.
Illustrazione apparsa su Weird Tales in occasione della pubblicazione del racconto Red Nails (1936).

Ma andiamo avanti. Il nostro secondo lettore è quello un po' più colto, che apprezza, sì, la prosa immediata ed efficace delle scene d'azione, la visceralità del personaggio e il suo realismo concreto, ma si tratta, tutto sommato, di rappresentazioni immaginarie di ciò che Howard avrebbe desiderato per sé stesso. Siamo al livello di masturbazione mentale.
Ed è in parte innegabile che Conan, come Solomon Kane, come Kull, come Costigan, o Esau Cairn (quest'ultimo, protagonista del romanzo breve Almuric, in particolar modo *) siano in realtà ciò che Howard ammirava e rappresentino l'ideale a cui puntava.
Il giovane Robert, infatti, aveva una cura estrema del proprio fisico. Praticava boxe in incontri clandestini. Si faceva fotografare a petto nudo, in posa da combattimento con coltello e pistola in pugno. Sì, è vero. Robert E. Howard sognava di essere Conan.
Non è un mistero.

Sì, sei uguale a Conan, ma ora metti giù quella roba, prima che qualcuno si faccia male.

Ma a entrambi i nostri lettori, quello più acuto e quello che invece lo è in minor misura, sfugge un particolare, il nocciolo che contiene il vero valore del personaggio di Conan: tutto, nei racconti del barbaro, è, alla fine dei conti, una rappresentazione di come Howard vedesse il mondo attorno a lui.
E qual era questo mondo?
Le boom-town texane degli anni '30, città che sorgevano nel giro di pochi giorni per essere popolate da operai richiamati dalle attività per l'estrazione petrolifera. Disoccupati reduci dalla recente crisi, avventurieri, bari, delinquenti di ogni tipo costituivano il sottomondo di queste città e i soprusi della polizia erano all'ordine del giorno. La società, poi, imponeva restrizioni di cui Howard risentiva moltissimo e dalle quali desiderava ardentemente liberarsi.
Quella che gli viene messa davanti agli occhi è dunque un'immagine tutt'altro che lusinghiera della civiltà umana: un luogo dove il denaro conta più delle persone, dove i valori etici vengono calpestati, dove la giustizia è in realtà quella del prepotente più grosso.
E Howard inventa Conan, che è il prepotente più grosso di tutti, per combattere queste ingiustizie, per prevalere sull'iniquità della "civiltà" umana grazie a valori morali e capacità fisiche che, nell'uomo barbarico sono più pure e non corrotte.

Conan è infatti un miscuglio di persone e idee per le quali Howard nutriva ammirazione. In Conan ci sono la purezza e la libertà dei nativi americani, la forza delle bestie selvatiche, la mancanza di rispetto per le regole civili di tutti i bricconi e gli avventurieri con cui Howard intratteneva discussioni, intervistandoli con insistenza quasi maniacale. Ma, soprattutto, Conan è la rivalsa di un'onestà primordiale nei confronti di una società che, invece di proteggere i suoi appartenenti, li opprime e li indebolisce: per questo, nei racconti del Cimmero, gli uomini e le donne civilizzati hanno sempre la peggio, sono visti come deboli, ottusi, indifesi.

In definitiva, questi racconti un po' ingenui rappresentano un'efficace e spietata critica della società ai tempi di Howard e, per certi versi, conservano la loro validità ancora oggi.

* Almuric è un romanzo breve in cui Esau Cairn, il protagonista, è un giovane ragazzone americano, particolarmente forzuto, che uccide accidentalmente un poliziotto che lo stava angherizzando. Costretto alla fuga, viene aiutato da uno scienziato che, grazie a un misterioso macchinario, lo spedisce sul selvaggio pianeta Almuric, dove vivono solo esseri selvaggi e primordiali, fra i quali Cairn spicca per qualità fisiche, dimostrandosi il guerriero supremo e il salvatore della razza sub-umana che abita il pianeta, nella lotta contro esseri demoniaci e degenerati.
Difficile essere più espliciti di così.

mercoledì 7 gennaio 2015

Il Grido di Charlie Hebdo

Con l'assalto alla redazione di Charlie Hebdo, la data di oggi è entrata a far parte della triste lista a cui ci ha abituati quell'11 Settembre 2001.
Sarebbe facile abbandonarsi alla rabbia e scrivere ciò che penso ora.
Ma farei un errore, perché la soluzione non risiede mai nell'ira del momento.

C'è però una cosa che mi sento in dovere di fare, anzi: c'è una cosa che mi sento in dovere di non fare ed è tacere.

Oggi non avete vinto voi, con i mitra spianati. Oggi hanno vinto le vostre vittime, perché avete dato loro una forza e una voce che prima non avevano. Ne avete fatto dei martiri e il grido che salirà dalle loro tombe sarà più assordante che mai e vi seppellirà fra le rovine della vostra cieca ignoranza.
Non avete vinto e non vincerete mai.
free counters