Il romanzo procede più lentamente del previsto, però procede. In parte, per l'aumento del lavoro di cui già vi avevo parlato il mese scorso, in parte perché ho dovuto riorganizzare gran parte della seconda metà, inclusa una grossa fetta di capitoli già scritti.
Non so se sia normale, probabilmente sono pippa io, ma mi sono reso conto, pur munito di tanto di appunti e scalette, di aver previsto uno stacco temporale troppo disorientante, troppo ampio e che, soprattutto, avrebbe sorvolato su alcuni cambiamenti che in realtà preferisco vedere in diretta.
Non puoi, anzi, non posso spendere metà di un romanzo per caratterizzare personaggi che poi, nella seconda metà ritroviamo radicalmente cambiati. In primo luogo, raccontare in retrospettiva questi cambiamenti, era noioso e non riuscivo io per primo a sentirmi coinvolto dal racconto. Figurarsi quanto avrebbe potuto interessarsene un eventuale lettore. Secondariamente, mi sono reso conto di aver accelerato i tempi unicamente per arrivare prima a una serie di sviluppi cui ero (e resto) interessato, ma cui è necessario arrivare in maniera organica: il prezzo da pagare per raggiungerli prima dovrebbe essere una voragine centrale troppo profonda.
Stavo commettendo quello che è un classico errore da esordiente (quale sono, dunque tutto torna): voler raccontare tutto subito. No, la storia ha il suo respiro e deve avere i suoi tempi.
Il beneficio di questa grande riorganizzazione della seconda parte è l'avermi dato modo di introdurre in maniera più diretta i nuovi personaggi che intervengono dopo una grande svolta a metà della narrazione e, inoltre, è stata un'occasione splendida per ripensare più profondamente la situazione di un paio di personaggi rilevanti, rimasti, a mio avviso, un po'in secondo piano (quando ho in realtà progetti molto importanti per loro).
Insomma, le tempistiche si stanno allungando rispetto al previsto, ma tutto sommato sono soddisfatto di come il romanzo si sta evolvendo in corso d'opera (come ho già avuto occasione di dire in passato).
A presto, con il prossimo Checkpoint!
lunedì 26 novembre 2012
Checkpoint 4
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sabato 10 novembre 2012
Canta l'Inno
Canta l'inno, vogliono insegnartelo a scuola
Canta l'inno, ora che sei bambino
Canta, fra i banchi della scuola
Fai un coro con i tuoi compagni
Se Scipio non lo conosci
Ti diranno chi è
Dulce et decorum, ti insegneranno
Canta l'inno, senza sbagliare i nomi
Cantalo bene, senza stonare
Cantalo ora, perché è un gioco
E ti danno un voto
Cantalo con convinzione, sarà più alto
Cantalo con dedizione, verrai premiato
Oggi ti dicono di impararlo
Domani ti diranno di cantarlo
Con un fucile in mano
Cantalo mentre spari, cantalo mentre muori
Canta l'inno, mentre loro siedono al sicuro
E mandano te a morir per i loro denari
Cantalo, mentre con il tuo giovanissimo sangue
Paghi il prezzo degli agi di pochi
Canta l'inno, ora che sei bambino
Canta, fra i banchi della scuola
Fai un coro con i tuoi compagni
Se Scipio non lo conosci
Ti diranno chi è
Dulce et decorum, ti insegneranno
Canta l'inno, senza sbagliare i nomi
Cantalo bene, senza stonare
Cantalo ora, perché è un gioco
E ti danno un voto
Cantalo con convinzione, sarà più alto
Cantalo con dedizione, verrai premiato
Oggi ti dicono di impararlo
Domani ti diranno di cantarlo
Con un fucile in mano
Cantalo mentre spari, cantalo mentre muori
Canta l'inno, mentre loro siedono al sicuro
E mandano te a morir per i loro denari
Cantalo, mentre con il tuo giovanissimo sangue
Paghi il prezzo degli agi di pochi
"Patriotism is the virtue of the vicious."
(Il patriottismo è la virtù degli immorali)
- Oscar Wilde
* - La tavola a fumetti è tratta dalle "Sturmtruppen" del compianto Bonvi.
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giovedì 25 ottobre 2012
Checkpoint 3
Doveva essere il terzo e ultimo controllo. Secondo il mio piano malefico, oggi (ieri, in realtà) avrei dovuto annunciarvi il completamento del mio romanzo.
Non ce l'ho fatta.
Sono rimasto indietro sulla tabella di marcia da me ipotizzata in un primo momento, fermandomi a oggi a un punto che definirei "un po'più di due terzi del libro totale".
Sono comunque soddisfatto, perché questo rallentamento non è stato causato dalla mia pigrizia, ma da un aumento di lavoro sul fronte fumetto.
Aggiungo un ulteriore mese. Appuntamento al 25 Novembre per concludere, poi comincerò con le revisioni.
Non ce l'ho fatta.
Sono rimasto indietro sulla tabella di marcia da me ipotizzata in un primo momento, fermandomi a oggi a un punto che definirei "un po'più di due terzi del libro totale".
Sono comunque soddisfatto, perché questo rallentamento non è stato causato dalla mia pigrizia, ma da un aumento di lavoro sul fronte fumetto.
Aggiungo un ulteriore mese. Appuntamento al 25 Novembre per concludere, poi comincerò con le revisioni.
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lunedì 1 ottobre 2012
Desbeliniamoci
Desbelisnarsi: vocabolo tipicamente genovese a indicare la necessità di svegliarsi, una buona volta.
Capita a tutti di sentirsi dire "Ma lavora gratis, ne ricavi in pubblicità!" e altre cialtronate del genere.
L'unica risposta accettabile a queste proposte è un sentito e cortese "No".
Ecco quel che ne pensa Harlan Ellison (noto autore di romanzi, racconti, sceneggiature per la TV):
Lo si vede: è incazzato nero. Perché? Perché la gente in tutto il mondo si ostina a considerare quello dell'autore un "lavoro finto", come se fosse possibile farlo nei ritagli di tempo, o quando ci va, o che, in ogni caso, serva poca fatica per farlo. E se questo atteggiamento fosse diffuso solo nella massa, direi, ce ne potrebbe importare relativamente poco. Purtroppo, è pieno di persone che approfittano di questa concezione e che tentano di trarre profitto dal lavoro altrui.
Ma non si tratta solo di qualche bellimbusto in giacca e cravatta, il cui tentativo di farti lavorare gratis è pure abbastanza palese, una volta visto attraverso l'inganno. No, ce ne sono di più subdoli ancora, come, per esempio, un sacco di siti su cui si pubblicano racconti, con "garanzia" di visibilità da parte delle case editrici.
Numero uno: la visibilità da parte delle case editrici, su siti del genere, è nulla. Non capita l'editor di Mondadori a leggere qualche lavoro lì, così, perché non sa che cacchio fare.
Numero due: i creatori del sito guadagnano con i contatti generati dai lettori dei racconti pubblicati, senza che gli autori degli stessi percepiscano alcuna percentuale del frutto del loro stesso lavoro.
Un autore deve essere prima di tutto capace di dare valore al proprio lavoro. E, in questo caso, si tratta di capire quanto costa il proprio tempo. Eh sì, il tempo ha un costo, soprattutto perché non veniamo pagati a giornata, ma un tanto al chilo: se scriviamo, percepiamo un compenso, se no... No.
Dunque, incazziamoci. Quando qualcuno vuole che gli regaliamo il nostro lavoro, incazziamoci. Quando c'è chi vuole lucrare sulla nostra professionalità, incazziamoci. Quando tentano di approfittare del prodotto della nostra fatica, senza pagarci, incazziamoci.
Il discorso vale anche al contrario: chi è disposto a lavorare gratis "pur di pubblicare", "pur di farsi notare", dovrebbe farci incazzare. Tanto, tantissimo.
Capita a tutti di sentirsi dire "Ma lavora gratis, ne ricavi in pubblicità!" e altre cialtronate del genere.
L'unica risposta accettabile a queste proposte è un sentito e cortese "No".
Ecco quel che ne pensa Harlan Ellison (noto autore di romanzi, racconti, sceneggiature per la TV):
Lo si vede: è incazzato nero. Perché? Perché la gente in tutto il mondo si ostina a considerare quello dell'autore un "lavoro finto", come se fosse possibile farlo nei ritagli di tempo, o quando ci va, o che, in ogni caso, serva poca fatica per farlo. E se questo atteggiamento fosse diffuso solo nella massa, direi, ce ne potrebbe importare relativamente poco. Purtroppo, è pieno di persone che approfittano di questa concezione e che tentano di trarre profitto dal lavoro altrui.
Ma non si tratta solo di qualche bellimbusto in giacca e cravatta, il cui tentativo di farti lavorare gratis è pure abbastanza palese, una volta visto attraverso l'inganno. No, ce ne sono di più subdoli ancora, come, per esempio, un sacco di siti su cui si pubblicano racconti, con "garanzia" di visibilità da parte delle case editrici.
Numero uno: la visibilità da parte delle case editrici, su siti del genere, è nulla. Non capita l'editor di Mondadori a leggere qualche lavoro lì, così, perché non sa che cacchio fare.
Numero due: i creatori del sito guadagnano con i contatti generati dai lettori dei racconti pubblicati, senza che gli autori degli stessi percepiscano alcuna percentuale del frutto del loro stesso lavoro.
Un autore deve essere prima di tutto capace di dare valore al proprio lavoro. E, in questo caso, si tratta di capire quanto costa il proprio tempo. Eh sì, il tempo ha un costo, soprattutto perché non veniamo pagati a giornata, ma un tanto al chilo: se scriviamo, percepiamo un compenso, se no... No.
Quando ci propongono di lavorare gratis...
La risposta giusta può essere questa...
Dunque, incazziamoci. Quando qualcuno vuole che gli regaliamo il nostro lavoro, incazziamoci. Quando c'è chi vuole lucrare sulla nostra professionalità, incazziamoci. Quando tentano di approfittare del prodotto della nostra fatica, senza pagarci, incazziamoci.
Il discorso vale anche al contrario: chi è disposto a lavorare gratis "pur di pubblicare", "pur di farsi notare", dovrebbe farci incazzare. Tanto, tantissimo.
... Oppure questa.
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martedì 25 settembre 2012
About Failure
Tempo fa mi è capitato di parlare con Davide, come spesso facciamo, di serie TV. E salta fuori il discorso di Nathan Fillion, un attore fra i più capaci, nell'ambito televisivo.
E' uno di quegli attori di cui basta la presenza a farmi interessare a un telefilm.
E infatti seguo Castle, giallo seriale abbastanza carino e ben scritto, anche se spesso prevedibile, come è un po'il caso della maggior parte dei gialli TV.
Quello che mi piace della serie, oltre a Fillion, che è un vero mattatore, è che il fatto di avere uno scrittore di gialli che si metta a indagare viene effettivamente sfruttato, non è solo un particolare fuori luogo.
I miei episodi preferiti sono infatti quelli in cui Castle indaga sui crimini vedendoli come trame da analizzare e decostruire: la sua capacità di creare colpi di scena, di dover conoscere la natura umana, lo porta a notare cose che gli agenti non noterebbero mai.
Capita, saltuariamente, che gli facciano avere un colpo d'occhio migliore, o che gli facciano dire qualcosa che gli agenti potrebbero e dovrebbero già conoscere per conto loro, ma la maggior parte delle volte, trova gli indizi immaginando la "trama" dietro all'omicidio.
Spesso Castle parla di come sia fare lo scrittore, dei processi mentali coinvolti, dei sacrifici che tocca fare.
Il terzo episodio della quarta stagione, andato in onda qualche giorno fa (qui in Italia), ha avuto un momento che mi ha particolarmente colpito. Castle, parlando con la figlia, appena rifiutata dal college dei suoi sogni, le spiega di tutte le volte che anche lui, come scrittore, è stato rifiutato. Sì, persino lui, scrittore di successo e ormai ricco, si è sentito rispondere "no", molte volte.
Purtroppo, il video della scena in questione è stato rimosso, ma vi copincollo il brevissimo dialogo:
Alexis: How do you do it, dad?
Castle: Do what?
Alexis: Well... that letter that you have framed in your office.
Castle: My first manuscript rejection.
Alexis: Yeah. How can you stand having it there?
Castle: Because it drives me. And I got twenty more of those… That letter... That letter reminds me of what I’ve overcome. Rejection isn’t failure.
Alexis: Sure feels like failure.
Castle: No, failure’s giving up. Everybody gets rejected. It’s how you handle it that determines where you’ll end up.
Traduco:
Alexis: Come fai, papà?
Castle: Faccio cosa?
Alexis: Ecco... Quella lettera che tieni incorniciata nel tuo studio.
Castle: Il rifiuto del mio primo manoscritto.
Alexis: Sì. Come fai a sopportare di averlo lì?
Castle: Perché mi sprona. E ne ho ricevuti altri venti di quelli… Quella lettera... Quella lettera mi ricorda ciò che ho superato. Il rifiuto non è un fallimento.
Alexis: Di certo sembra un fallimento.
Castle: No, il fallimento è rinunciare. Tutti veniamo rifiutati. E' come lo gestisci a determinare dove finirai.
Mi ha colpito, questo breve scambio di battute, perché è vero in qualunque ambito, ma soprattutto per un autore.
E' uno di quegli attori di cui basta la presenza a farmi interessare a un telefilm.
E infatti seguo Castle, giallo seriale abbastanza carino e ben scritto, anche se spesso prevedibile, come è un po'il caso della maggior parte dei gialli TV.
Quello che mi piace della serie, oltre a Fillion, che è un vero mattatore, è che il fatto di avere uno scrittore di gialli che si metta a indagare viene effettivamente sfruttato, non è solo un particolare fuori luogo.
I miei episodi preferiti sono infatti quelli in cui Castle indaga sui crimini vedendoli come trame da analizzare e decostruire: la sua capacità di creare colpi di scena, di dover conoscere la natura umana, lo porta a notare cose che gli agenti non noterebbero mai.
Capita, saltuariamente, che gli facciano avere un colpo d'occhio migliore, o che gli facciano dire qualcosa che gli agenti potrebbero e dovrebbero già conoscere per conto loro, ma la maggior parte delle volte, trova gli indizi immaginando la "trama" dietro all'omicidio.
Spesso Castle parla di come sia fare lo scrittore, dei processi mentali coinvolti, dei sacrifici che tocca fare.
Il terzo episodio della quarta stagione, andato in onda qualche giorno fa (qui in Italia), ha avuto un momento che mi ha particolarmente colpito. Castle, parlando con la figlia, appena rifiutata dal college dei suoi sogni, le spiega di tutte le volte che anche lui, come scrittore, è stato rifiutato. Sì, persino lui, scrittore di successo e ormai ricco, si è sentito rispondere "no", molte volte.
Purtroppo, il video della scena in questione è stato rimosso, ma vi copincollo il brevissimo dialogo:
Alexis: How do you do it, dad?
Castle: Do what?
Alexis: Well... that letter that you have framed in your office.
Castle: My first manuscript rejection.
Alexis: Yeah. How can you stand having it there?
Castle: Because it drives me. And I got twenty more of those… That letter... That letter reminds me of what I’ve overcome. Rejection isn’t failure.
Alexis: Sure feels like failure.
Castle: No, failure’s giving up. Everybody gets rejected. It’s how you handle it that determines where you’ll end up.
Traduco:
Alexis: Come fai, papà?
Castle: Faccio cosa?
Alexis: Ecco... Quella lettera che tieni incorniciata nel tuo studio.
Castle: Il rifiuto del mio primo manoscritto.
Alexis: Sì. Come fai a sopportare di averlo lì?
Castle: Perché mi sprona. E ne ho ricevuti altri venti di quelli… Quella lettera... Quella lettera mi ricorda ciò che ho superato. Il rifiuto non è un fallimento.
Alexis: Di certo sembra un fallimento.
Castle: No, il fallimento è rinunciare. Tutti veniamo rifiutati. E' come lo gestisci a determinare dove finirai.
Mi ha colpito, questo breve scambio di battute, perché è vero in qualunque ambito, ma soprattutto per un autore.
Fun fact di cui non frega niente a nessuno: il nome di questo scanzonato personaggio, che spesso fa il cretino, è stato creato perché, il diminutivo, Rick (da Richard) Castle, in inglese suona come "Rick asshole", che vuoldire appunto "Rick il cretino".
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lunedì 24 settembre 2012
Checkpoint 2
E siamo al secondo controllo.
Rispetto alla scorsa volta, sono rimasto un pochino indietro (poco più di 4000 parole sotto alla quota prevista).
Comunque, nel bene e nel male, il progetto va avanti a un ritmo che mi soddisfa.
Rispetto alla scorsa volta, sono rimasto un pochino indietro (poco più di 4000 parole sotto alla quota prevista).
Comunque, nel bene e nel male, il progetto va avanti a un ritmo che mi soddisfa.
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giovedì 6 settembre 2012
The Dark Knight Rises
Come al solito, per i paranoici dello spoiler come me, siete avvisati.
Ne avevamo già parlato qui.
Con questa pellicola, Nolan chiude la sua trilogia sul Cavaliere Oscuro, portando a compimento un lavoro iniziato sette anni fa con il non brillantissimo Batman Begins.
Il seguito, The Dark Knight, giocò molto al rialzo, eliminando la pessima Katie Holmes dal cast e puntando molto di più sulla psicologia dei personaggi, con un avversario, il Joker, disumano al massimo grado. Le scene d'azione non brillano, la trama non sempre brillante, ma il film fu indubbiamente superiore al predecessore proprio perché Nolan, con il confronto tra luce e ombra della psicologia dei personaggi, giocava, come si suol dire, in casa.
Penso pertanto che fosse legittimo aspettarsi non dico un ulteriore gioco al rialzo, ma almeno un film degno del predecessore, entrando in sala per The Dark Knight Rises.
Purtroppo, mi tocca ammettere (a costo di apparire come l'eterno insoddisfatto) di essere rimasto deluso.
Probabilmente sbaglio io: il film continua a ricevere critiche entusiaste e gli indici di gradimento sono altissimi. Gli incassi al botteghino sono da record.
Probabilmente sono io a sbagliare.
Deluso, dicevo, perché da Nolan uno si aspetta di più. Se ne ha il diritto, quando si ha a che fare con un regista capace di tirarti fuori Memento, Inception e The Prestige. Ci si può permettere di pretendere di più, invece di accontentarsi di un film estremamente didascalico come The Dark Knight Rises.
Quando la trama si complica, quando s'incontra un risvolto psicologico più profondo, l'impeccabile Alfred tira fuori dal taschino uno spiegone. O chi per lui.
Alla fine è questo il difetto maggiore, che mette in secondo piano una trama scontata, talvolta scarsamente coerente, le scene d'azione fredde e per nulla entusiasmanti (e, avendo puntato così tanto sulla fisicità dell'avversario principale, non è un difetto trascurabile), o i messaggi di fondo comunicati in maniera decisamente sbagliata.
Faccio due esempi di quest'ultimo punto, perché potrei benissimo sbagliarmi: il vice commissario, verso la fine del film, si caca sotto e decide di non partecipare alla battaglia finale, nella speranza di evitare di finire ammazzato. Gordon gli fa un ispiratissimo discorso sulla morale della resistenza di fronte alla tirannia e, alla fine, lo convince a unirsi alla ribellione.
Durante la battaglia finale, il vice commissario muore.
Perché considero questo un modo errato di vendere il messaggio?
Perché, messa così, aveva ragione il vice e torto Gordon: è accaduto esattamente quello che il vice temeva e, per di più, l'aver fatto la cosa giusta non ha fatto alcuna differenza nella lotta. La sua morte, in questo modo, scredita completamente il discorso di Gordon.
Doveva sopravvivere a tutti i costi? Non necessariamente. Sarebbe stato sufficiente fargli fare qualcosa: magari gli uomini sono anche loro riluttanti a rischiare la vita in battaglia e lui, in alta uniforme, li convince e poi muore eroicamente in battaglia, ma, a quel punto, avendo fatto la sua parte.
Purtroppo, è il messaggio che traspare dalla pellicola: il sacrificio personale è sbagliato. Farsi i cazzi propri è giusto e ti porta alla felicità.
Il secondo esempio riguarda la frase di Harvey Dent: "Either you die the hero, or live long enough to become the villain" (O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo).
In The Dark Knight, era questo il messaggio centrale, unito al sacrificio per il bene superiore, e vorrebbe essere il tema centrale anche in questo terzo capitolo della saga, finendo però per dirci l'esatto contrario.
Nella scena culminante del film, Batman sembra sacrificare la sua stessa vita per salvare Gotham.
A parte che non abbiamo mai nessun motivo di redenzione che ci faccia pensare che Gotham meriti di essere salvata (è il mito di Sodoma e Gomorra: le città vengono salvate perché al loro interno vivono anche i giusti), il problema di questo finale è che, alla fine, Batman non si sacrifica: lo vediamo nell'ultimissima sequenza, in riva all'Arno, fare un cenno di saluto ad Alfred. Sappiamo che non è immaginazione, perché Lucius Fox ha appena scoperto che, alla fine, il Batwing aveva l'autopilota.
Perché lo ritengo un errore? Perché, a mio avviso, scredita, con un espediente gratuito e piuttosto banale, l'intero concetto di sacrificio estremo su cui ruota il film.
O muori da eroe, o vai a far l'aperitivo a Firenze.
Menzione di disonore al doppiaggio italiano, che riesce a demolire qualunque credibilità residua dei personaggi, primo fra tutti Tom Hardy che, già penalizzato dall'onnipresente maschera di Bane, è costretto a puntare quasi tutto sulla voce, per dare un minimo di spessore al suo personaggio.
Per concludere con un sorriso, il finale con bomba da buttare a mare:
SPOILER ALERT
Ne avevamo già parlato qui.
Con questa pellicola, Nolan chiude la sua trilogia sul Cavaliere Oscuro, portando a compimento un lavoro iniziato sette anni fa con il non brillantissimo Batman Begins.
Il seguito, The Dark Knight, giocò molto al rialzo, eliminando la pessima Katie Holmes dal cast e puntando molto di più sulla psicologia dei personaggi, con un avversario, il Joker, disumano al massimo grado. Le scene d'azione non brillano, la trama non sempre brillante, ma il film fu indubbiamente superiore al predecessore proprio perché Nolan, con il confronto tra luce e ombra della psicologia dei personaggi, giocava, come si suol dire, in casa.
Penso pertanto che fosse legittimo aspettarsi non dico un ulteriore gioco al rialzo, ma almeno un film degno del predecessore, entrando in sala per The Dark Knight Rises.
Purtroppo, mi tocca ammettere (a costo di apparire come l'eterno insoddisfatto) di essere rimasto deluso.
Probabilmente sbaglio io: il film continua a ricevere critiche entusiaste e gli indici di gradimento sono altissimi. Gli incassi al botteghino sono da record.
Probabilmente sono io a sbagliare.
Deluso, dicevo, perché da Nolan uno si aspetta di più. Se ne ha il diritto, quando si ha a che fare con un regista capace di tirarti fuori Memento, Inception e The Prestige. Ci si può permettere di pretendere di più, invece di accontentarsi di un film estremamente didascalico come The Dark Knight Rises.
Quando la trama si complica, quando s'incontra un risvolto psicologico più profondo, l'impeccabile Alfred tira fuori dal taschino uno spiegone. O chi per lui.
Alla fine è questo il difetto maggiore, che mette in secondo piano una trama scontata, talvolta scarsamente coerente, le scene d'azione fredde e per nulla entusiasmanti (e, avendo puntato così tanto sulla fisicità dell'avversario principale, non è un difetto trascurabile), o i messaggi di fondo comunicati in maniera decisamente sbagliata.
Faccio due esempi di quest'ultimo punto, perché potrei benissimo sbagliarmi: il vice commissario, verso la fine del film, si caca sotto e decide di non partecipare alla battaglia finale, nella speranza di evitare di finire ammazzato. Gordon gli fa un ispiratissimo discorso sulla morale della resistenza di fronte alla tirannia e, alla fine, lo convince a unirsi alla ribellione.
Durante la battaglia finale, il vice commissario muore.
Perché considero questo un modo errato di vendere il messaggio?
Perché, messa così, aveva ragione il vice e torto Gordon: è accaduto esattamente quello che il vice temeva e, per di più, l'aver fatto la cosa giusta non ha fatto alcuna differenza nella lotta. La sua morte, in questo modo, scredita completamente il discorso di Gordon.
Doveva sopravvivere a tutti i costi? Non necessariamente. Sarebbe stato sufficiente fargli fare qualcosa: magari gli uomini sono anche loro riluttanti a rischiare la vita in battaglia e lui, in alta uniforme, li convince e poi muore eroicamente in battaglia, ma, a quel punto, avendo fatto la sua parte.
Purtroppo, è il messaggio che traspare dalla pellicola: il sacrificio personale è sbagliato. Farsi i cazzi propri è giusto e ti porta alla felicità.
Il secondo esempio riguarda la frase di Harvey Dent: "Either you die the hero, or live long enough to become the villain" (O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo).
In The Dark Knight, era questo il messaggio centrale, unito al sacrificio per il bene superiore, e vorrebbe essere il tema centrale anche in questo terzo capitolo della saga, finendo però per dirci l'esatto contrario.
Nella scena culminante del film, Batman sembra sacrificare la sua stessa vita per salvare Gotham.
A parte che non abbiamo mai nessun motivo di redenzione che ci faccia pensare che Gotham meriti di essere salvata (è il mito di Sodoma e Gomorra: le città vengono salvate perché al loro interno vivono anche i giusti), il problema di questo finale è che, alla fine, Batman non si sacrifica: lo vediamo nell'ultimissima sequenza, in riva all'Arno, fare un cenno di saluto ad Alfred. Sappiamo che non è immaginazione, perché Lucius Fox ha appena scoperto che, alla fine, il Batwing aveva l'autopilota.
Perché lo ritengo un errore? Perché, a mio avviso, scredita, con un espediente gratuito e piuttosto banale, l'intero concetto di sacrificio estremo su cui ruota il film.
O muori da eroe, o vai a far l'aperitivo a Firenze.
Menzione di disonore al doppiaggio italiano, che riesce a demolire qualunque credibilità residua dei personaggi, primo fra tutti Tom Hardy che, già penalizzato dall'onnipresente maschera di Bane, è costretto a puntare quasi tutto sulla voce, per dare un minimo di spessore al suo personaggio.
Per concludere con un sorriso, il finale con bomba da buttare a mare:
Mi pareva d'averlo già visto...
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